La sua prima autobiografia s’intitola Il figlio del venditore di stracci: il divo Kirk Douglas ci tiene ad entrare nella narrazione dell’immigrato di umili origini che riesce, con l’entusiasmo e il duro lavoro, a diventare ricco e famoso ed anche felicemente sposato; dunque si presenta come l’ebreo Issur Danielovitch – padre di origine bielorussa e madre ucraina – che esordisce al cinema (a trent’anni, dopo la nascita del primogenito Michael) nel dopoguerra, interpreta film di derivazione teatrale (Il lutto si addice ad Elettra, Nichols 1947, da Eugene O’Neill; Lo zoo di vetro, Rapper 1950, da Tennessee Williams) e poi s’impone negli anni cinquanta sotto la guida di registi come Billy Wilder (L’asso nella manica, 1951: un giornalista tenta di diventare ricco e famoso inventando un caso mediatico), William Wyler (Pietà per i giusti, 1951), Howard Hawks (Il grande cielo, 1952) e Vincente Minnelli (Il bruto e la bella, 1952, metafilm in cui Douglas fa la parte di un produttore cinematografico, guadagnandosi la sua seconda nomination all’Oscar come miglior attore dopo quella per Il grande campione). A metà degli anni cinquanta, l’arrivo dei quarant’anni segna una svolta in direzione dell’investimento produttivo: la sua seconda moglie è una produttrice (la tedesca Anne Buydens, 101 anni il prossimo 23 aprile) e lui stesso – seguendo una moda lanciata da Burt Lancaster (Norma Productions) – fonda una casa di produzione indipendente chiamandola come sua madre Bryna.
Se un regista che diventa produttore è un autore che vuole avere il controllo della sua opera (vedi Hitchcock o Kubrick), un attore che diventa produttore forse vuole passare dal ruolo di esecutore di lusso (l’hitchcockiana “bestia da macello”, benché ripagata dal titolo di star) al ruolo di autore – forse perché il divo è famoso per gli spettatori suoi contemporanei, ma è l’opera che eventualmente riesce a candidarsi all’immortalità (come già insegnava la storia del teatro: i personaggi di Shakespeare sono più famosi di tutti i loro interpreti). Non è un caso che nel catalogo Bryna ci siano anche due film diretti in prima persona da Kirk Douglas (che ne è comunque il protagonista, secondo il modello che è ben riuscito a Clint Eastwood): Scalawag (Un magnifico ceffo da galera, 1973), una coproduzione con l’Italia e la Jugoslavia basata su L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson; e Posse (I giustizieri del West, 1975), un tale insuccesso da farlo desistere da ulteriori tentativi (ricordiamo che Clint Eastwood inizia la carriera registica nel 1971 con Brivido nella notte, prodotto dalla sua Malpaso).
La caratteristica fossetta al mento finisce sul volto di personaggi diversissimi come l’omerico Ulisse (nel film di Mario Camerini che è il campione d’incassi della stagione italiana 1954/55) e due personaggi storici: lo schiavo Spartaco, che muore crocifisso e misconosciuto ma il cui nome resterà come mitico esempio di ribellione contro i sistemi disumani; e il pittore Vincent van Gogh (Brama di vivere, Minnelli 1956, terza e ultima nomination all’Oscar come miglior attore), l’artista tanto povero e disprezzato da vivo quanto acclamato e superquotato dopo morto. Come si vede, si tratta di scelte – all’interno delle possibilità che un attore deve ritagliare attorno al proprio volto e al proprio corpo – che cadono su personaggi il cui nome è più famoso dell’aspetto fisico, la cui fama irradia un potere che invita al paragone e all’emulazione: il vantaggio del biopic è che l’attore si confronta con il personaggio senza dover passare attraverso la mediazione dell’autore letterario, dunque con buone chance di canonizzazione nell’immaginario collettivo (Otello e Amleto sempre saranno più Shakespeare che non Orson Welles o Laurence Olivier, mentre Spartaco sempre sarà più Kirk Douglas che non i dialoghi di Dalton Trumbo).
Nella sua autobiografia, l’attore/autore ci tiene a raccontare la supremazia del produttore sui registi (come ai tempi di Via col vento). Stanley Kubrick modifica il copione di Orizzonti di gloria (1957) ficcandoci un lieto fine per ingraziarsi il botteghino, è Kirk Douglas che ripristina il taglio tragico mantenendo l’integrità morale dell’opera (ma la sua versione dei fatti è l’unica che abbiamo). Sul set di Spartacus (1960) il produttore/protagonista licenzia il veterano e iperproduttivo Anthony Mann (un regista non troppo cattivo, visto che le sue riprese fanno parte integrante del montaggio finale) e lo sostituisce col giovane Kubrick, già testato con Orizzonti di gloria ma che si rivela troppo perfezionista per non arrivare allo scontro (col direttore della fotografia, con lo sceneggiatore Dalton Trumbo e anche con lo stesso Douglas). Finisce che Kubrick disconosce la paternità di Spartacus, di fatto considerandolo un’opera non degna della sua filmografia, mentre Douglas e Mann si riconcilieranno girando assieme nel 1965 Gli eroi di Telemark.
Nel suo ultimo libro di memorie, scritto a 95 anni quasi a tirare le somme definitive di tutta una carriera, l’attore/autore si concentra sul film rigettato da Kubrick per farlo diventare non solo una riaffermazione incontestabile di progettualità creativa (il titolo si basa sulla frase “Io sono Spartaco!” che caratterizza la scena che il regista ribelle fu costretto a girare recalcitrante) ma anche il fulcro per la ricostruzione storica dell’epoca maccartista e della “inquisizione a Hollywood”: il sottotitolo Come girammo un film e cancellammo la lista nera fa riferimento alla vicenda dello sceneggiatore Dalton Trumbo condannato per comunismo, che lavora sottobanco e sottopagato (anche per film come Vacanze romane premiati con l’Oscar) e che si riappropria del suo vero nome grazie ai titoli di testa di Spartacus e di Exodus (Preminger 1960). Il politico prende il sopravvento sull’estetico, ma sempre in vista di una canonizzazione oltre i confini dell’Oscar alla carriera (1996).
Nel film L’ultima parola (Roach 2016), che racconta la vita di Trumbo dall’arresto alla riabilitazione, c’è anche la figura dell’attore/autore Kirk Douglas che va a commissionare una riscrittura del copione di Spartacus lamentandosi del regista rompiscatole Kubrick; curiosamente, però, mentre ci sono più scene in cui compare il personaggio Douglas (impersonato dall’attore neozelandese Dean O’Gorman), il personaggio Kubrick non compare mai. Le vie della canonizzazione sono imperscrutabili, e all’ultimo momento l’attore/autore che ha collaborato con registi buoni e cattivi (compreso il delatore Elia Kazan, per il quale è stato il protagonista di Il compromesso) ha deciso – per restare vivo oltre i 103 anni – di scommettere su un film con troppi autori per averne uno. Scordando che la pellicola di Kubrick successiva a Spartacus, e cioè Lolita (1962), si apre con la scena di un uomo armato che si aggira nel salone di una villa; quando un tizio si palesa con indosso un lenzuolo bianco simile ad una toga romana, chiede: “Lei è Quilty?”. E l’altro, destinato a morire, risponde: “No, io sono Spartaco!”.
Riferimenti bibliografici
J. McBride, Kirk Douglas, Milano Libri Edizioni, Milano 1985.
K. Douglas, Il figlio del venditore di stracci, Rizzoli, Milano 1989.
Id., Danza con il diavolo, Sperling & Kupfer, Milano 1991.
Id., Io sono Spartaco!, Il Saggiatore, Milano 2013.
Kirk Douglas, Amsterdam 1916 – Beverly Hills 2020.