Che gli scandinavi piangano, al pari dei loro simili dell’Europa meridionale, appare un’affermazione scontata. Ma che i norvegesi possano piangere, in senso non letterale, per gli stessi problemi sociali e generazionali che affliggono, ad esempio, gli italiani desta decisamente più stupore. Perché siamo abituati a pensare la Norvegia, e i paesi scandinavi in genere, come luoghi privi di questo tipo di problemi, dove i salari sono alti, i servizi funzionano, i giovani trovano lavoro facilmente e si realizzano. È forse per questo che colpisce la visione de La persona peggiore del mondo del norvegese Joachim Trier, giunto al suo quinto lungometraggio. Ambientato in una Oslo perennemente estiva, racconta di Julie (Renate Reinsve) ragazza prossima ai trent’anni, che si confronta con la sua mancata realizzazione nella vita. Dapprima studentessa modello, iscritta a medicina, lascia la facoltà per frequentare psicologia, sua “vera passione”; così vera da abbandonarla dopo poco per mettersi una reflex al collo e tentare la carriera da fotografa. I suoi cambi di direzione nella vita sono scanditi da altrettanti cambi di partner, finché Julie non sembra riuscire ad avere una relazione stabile con il fumettista Aksel, un autore politicamente scorretto e più grande di lei di quindici anni.

Ma tutto ciò è solo il prologo dei dodici capitoli, più epilogo, in cui è suddivisa la narrazione, i quali contribuiscono a dare ritmo alla stessa, la quale è spesso caratterizzata da un brio che ricorda il miglior Woody Allen. Il film non indaga le turbolenze di una (ancora) adolescente alle prese con le proprie vocazioni e aspirazioni, bensì l’inadeguatezza di una giovane adulta che si trova a fare il resoconto della sua vita alla soglia dei trent’anni. O meglio, che cerca di fuggire da quel resoconto, intrappolata in una realtà che non la soddisfa (una relazione di cui non sembra troppo convinta, una carriera da fotografa quasi accantonata, un lavoretto poco remunerativo in una libreria), ma incapace di cambiarla. Suscita irritazione dalla prima inquadratura, Julie, lontana dall’essere un’eroina dei nostri tempi, molto più vicina al ritratto di una generazione smarrita, troppo grande per ricominciare da zero e troppo piccola per rassegnarsi a far parte del mondo degli adulti.

Salta fin troppo all’occhio il perché del titolo. Julie è immatura e incostante, vive in un limbo perpetuo che le impedisce di pianificare un futuro con Aksel e di impegnarsi veramente nella relazione, così come di lanciarsi a capofitto in un lavoro in cui crede. E questa immaturità fa soffrire chi le sta intorno, oltre a mostrarla sfuggente, inaffidabile e distaccata. La persona peggiore del mondo non è però un film drammatico, pur contenendo del dramma, e non è una commedia brillante, pur avendo sprazzi di leggerezza. Il film, terzo capitolo della trilogia di Oslo, firmata dal regista norvegese, esplora per la prima volta, con successo, un genere di film complesso, dove è facile scadere nell’ammiccante o nel lamentoso. Trier si inserisce con gusto nel genere dramedy, trovando un suo stile con arguzia e senso estetico, aiutato dall’interpretazione di Reinsve, premiata come migliore attrice a Cannes, e dalla sceneggiatura scritta a quattro mani con Eskil Vogt.

Con questo film, Trier mostra indubbiamente di aver raggiunto una certa maturità artistica. La scelta di una Oslo perennemente mite e soleggiata – poche sequenze girate in inverno si fanno presto dimenticare – riesce perfettamente a rendere l’idea di libertà ed evasione. Julie può correre libera per le strade, passeggiare romanticamente con sconosciuti e uscire a tutte le ore con qualsiasi abbigliamento. E difatti lo fa, anche se mai con un obiettivo preciso. Non mancano momenti in cui il regista si diverte genuinamente con cinepresa e montaggio, riprendendo scene dall’estetica ricercata ma asciutta, che regalano momenti di cinema realmente godibili, senza essere pretenziosi. Come quando una mattina il mondo intorno a Julie si congela e Aksel rimane pietrificato, come una statua di sale, mentre versa il suo caffè. E allora la protagonista fugge via di casa e corre per le quiete strade di Oslo la domenica mattina, mentre il mondo intorno a lei rimane fermo come in una fotografia. La scena è evocativa e al tempo stesso rappresentativa del desiderio di evasione di una giovane donna, che sente su di sé il giudizio degli altri, dei “grandi”, e riesce a dar sfogo a quelli che lo spettatore è portato a giudicare come capricci, ma solo in un mondo cristallizzato, dove nessuno possa accorgersene.

È un tema cruciale nel film, quello del posto che si occupa al mondo, di quello che gli altri pensano si debba occupare, di quello che si vuole occupare; senza che, ovviamente, quest’ultimo sia davvero definito e senza che nessuno stia realmente col dito puntato a giudicare (se non, forse, il fidanzato Aksel). Da incorniciare poi il capitolo 2, “Il tradimento”, in cui Julie scappa da una presentazione di Aksel con una scusa e si intrufola clandestinamente ad un matrimonio in cui incontrerà Eivind, giovane affascinante, che emana stabilità e calma dal primo istante.

Ma il cinema di Trier non scade nell’ovvio e offre un punto di vista originale sulle cose. Il tradimento c’è o no? Bastano due anime che danzano senza che i corpi si incontrino a tradire? È una realtà liquida, quasi magmatica, quella che fluisce attraverso lo schermo, in cui lo spettatore è portato naturalmente a giudicare, ma tale giudizio risulta tutto fuorché banale. Julie è colpevole della sua immaturità e inaffidabilità o è da assolvere in quanto giovane donna alla quale è ancora concesso di andare alla scoperta? Da questo punto di vista, il titolo potrebbe quasi essere volto in forma interrogativa. La protagonista è davvero la persona peggiore del mondo? Se lo chiede probabilmente anche lei, quando, in un finale in cui il dramma tenta di prendere il sopravvento, va in cerca di redenzione. Senza, apparentemente, trovarla.

Insomma, forse la quinta pellicola di Trier vuole proprio mettere in luce quelle zone d’ombra, quelle aree grigie in cui non riusciamo a collocare una intera generazione di millennials, che, in Norvegia come altrove in Occidente, vive una crisi di identità, a quanto pare, a prescindere dalle condizioni socio-economiche del Paese in cui si trova. Julie sarebbe potuta diventare medico o psicologo, orgoglio di ogni genitore della media borghesia, eppure, a prescindere da questa possibilità, va alla ricerca di non sa bene cosa, barcamenandosi tra scelte di dubbia assennatezza, priva di un vero obiettivo nella vita. Dopo aver visto questo film, si esce dunque dal cinema con tanti rimorsi per i giudizi che si sono dati troppo in fretta durante la proiezione e con la voglia di rivederlo, per potersi redimere da una visione granitica della generazione millennial e lasciarsi la possibilità di non voler a tutti i costi afferrare con le mani una realtà liquida, che scivola via ogni volta che cerchiamo di rinchiuderla nelle nostre categorie mentali.

La persona peggiore del mondo. Regia: Joachim Trier; sceneggiatura: Eskil Vogt, Joachim Trier; interpreti: Renate Reinsve, Anders Danielsen Lie, Herbert Nordrum; produzione: Oslo Pictures, MK2 Productions, Film i Väst, Snowglobe, B-Reel, Arte France Cinéma; distribuzione: Teodora Film; origine: Norvegia, Francia, Svezia, Danimarca; anno: 2021; durata: 121′.

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