Siamo sdraiati sulla nostra schiena e ogni tentativo di muoverci si risolve in un nulla di fatto. Bloccati nel nostro corpo, l’ansia inizia a montare. Ci guardiamo attorno, ma in questo stato ansiogeno non riusciamo a mettere a fuoco i dettagli circostanti. Eppure tutto appare familiare: è la nostra stanza da letto, non ci sono dubbi. Alcuni in tali situazioni avvertono delle presenze mostruose poggiate sul proprio sterno. È questa una descrizione sintetica della paralisi notturna, un’esperienza di soglia tra il sonno e la veglia, ben rappresentata da una delle molte varianti di Incubo, forse il più famoso dipinto di Johann Heinrich Füssli. Qui una donna, abbandonata sulla schiena nella propria camera da letto, è visitata da uno gnomo mostruoso, poggiato sul suo petto, e dal volto di un cavallo dalle pupille assenti, affacciato dall’al di là di una tenda rossa. L’Incubo di Füssli ci permette così di visualizzare la paralisi notturna, una delle esperienze più comuni d’immersione nelle soglie tra l’onirico e il reale quotidiano, senza la mediazione di dispositivi tecnici; un’esperienza che coinvolge l’intero sensorio nella proiezione di contenuti fantasmatici all’interno delle nostre camere da letto, in quello che è, in tutto e per tutto, una sopravvivenza nello stato di veglia di una «paralisi funzionale» utile a impedirci di «agire i nostri sogni» (Plazzi 2019). Quella appena descritta è un’esperienza di soglia che entrerebbe di diritto in una ricostruzione genealogica dei rapporti tra immersività e fantasmagorie oniriche. I fantasmi dei nostri sogni invadono di fatto la stessa trama del reale, senza che vi si produca una separazione netta tra sogno e veglia

Vi sono diversi paradigmi attraverso i quali affrontare il nodo dell’immersività, sia in rapporto a una sua genealogia, sia a partire dai suoi più recenti sviluppi nella Virtual Reality. A questo tema è dedicato La notte dei simulacri. Sogno, cinema, realtà virtuale (Johan & Levi, 2021) di Giancarlo Grossi. Qual è dunque la differenza tra un’immersività nelle allucinazioni ipnagogiche, come quella appena descritta delle paralisi notturne, non mediate tecnicamente, e l’immersività progettata a partire dal XIX secolo, con panorami, fantasmagorie, diorami e — più recentemente — attraverso la realtà virtuale? La risposta fornita nel testo di Grossi è articolata nel rapporto tra individualità dell’esperienza immersiva e possibilità di partecipazione collettiva a essa.

La storia dell’immersività sarebbe così strettamente legata a quella parallela delle tecnologie di esteriorizzazione delle immagini oniriche, in quanto queste ultime sono presentate come veri e propri mondi virtuali immersivi ai quali ciascun vivente umano avrebbe accesso nel proprio dormire. Sogno e realtà si confondono allora, non per i contenuti o le strutture di cui sono composti, ma per la qualità dell’esperienza che vi è implicata: un «senso di presenza assoluto» che si accompagna sia al fatto di «percepire noi stessi come parte del contenuto illusorio, che non è contemplato a distanza» come in un dipinto o in un film, sia all’essere «sempre protagonisti» del sogno (Grossi 2021, p. 11) . 

Tuttavia, le considerazioni sulla qualità immersiva del sogno lo presentano come strettamente individuale, quando un’aspetto interessante di queste riflessioni si costituisce attorno al tema dell’accesso collettivo al sintomo. Se, come afferma Georges Didi-Huberman, «l’immagine ha spesso più memoria e avvenire di colui che la guarda» (Didi-Huberman 2007, p. 13), allora il punto d’esposizione nell’immagine del sintomo assume una rinnovata rilevanza, soprattutto se questa smette di essere mostrata solamente all’interno dello spazio onirico individuale. Ciò che le tecniche immersive promettono, in questa prospettiva, è un’accesso collettivo alla dimensione del sogno, anche nei suoi aspetti traumatici.  

A partire da questi presupposti diviene necessario tanto scrivere una storia del sogno quanto delineare una archeologia delle tecnologie che hanno reso l’esperienza onirica accessibile in maniera comune, esteriorizzandola. Il tentativo di Grossi è quello di ricostruire una genealogia intermittente, in cui l’immersività, entrata a far parte della storia del XIX secolo con i panorami di Robert Barker, resta solamente sottotraccia nelle successive tecnologie spettatoriali come il cinema (si pensi a La palla nº 13, 1924, di Keaton), per poi riemergere come rimosso negli anni ’90 del Novecento nelle sperimentazioni in QuickTime VR di Zoe Beloff.  In ognuno di questi media, pur nelle loro differenze, sembra poter essere rilevato un desiderio d’immersione all’interno delle immagini. Un’immersione che, inizialmente, prevedeva solamente un’esperienza visuale, come ad esempio nei panorami ottocenteschi che, pur coprendo l’intero campo visivo dello spettatore in una ricostruzione illusoria, non permettevano alcun altro tipo di interazione con sensi come il tatto o il gusto.

È con l’immaginario cinematografico che una tale esigenza di adesione dell’intero sensorio a un ambiente virtuale sembra però essersi manifestata compiutamente, benché vi fosse qui un’esperienza di pura spettatorialità, ben organizzata dalla superficie di proiezione in una partecipazione esclusivamente audiovisiva. Resta impresso, a tal proposito, l’episodio Corvi all’interno del film Sogni (1990) di Akira Kurosawa, in cui ad essere anticipata nell’esperienza immersiva nei quadri di Van Gogh è «la traduzione dell’immaginario artistico in ambiente virtuale» che «costituisce oggi il fulcro delle principali esperienze immersive» (Grossi 2021, p. 97). 

Il ruolo della realtà virtuale è così presto definito, lì dove il sogno dell’immersività viene a costituirsi come possibilità di partecipazione collettiva. La VR si presenta come prima e principale tecnologia in grado di coinvolgere interamente il sensorio del partecipante all’interno di un orizzonte virtuale che può essere così detto propriamente sia immersivo sia condivisibile. Non è un caso forse se accanto alle esperienze puramente ludiche innestate in ambienti virtuali si trovino numerosi esperimenti di partecipazione al trauma. Queste, tuttavia, assumono ancora i caratteri della rappresentazione mimetica dell’esperienza, come ad esempio in Project Syria il cui tentativo è «rimuovere la mediazione rappresentata dal reporter e catapultare l’audience direttamente nella scena» (ivi, p. 125). La possibilità di sottoporsi all’esperienza traumatica altrui — nella sua versione immediata e mimetica rispetto a un reale disponibile — è però ritenuta da Grossi una modalità che non tiene sufficientemente conto dei dispositivi di mediazione attraverso i quali l’immersività è confezionata. Una questione questa che si affaccia anche a quella dell’esposizione del sintomo e dell’elaborazione del trauma all’interno dell’ambiente onirico.

Vi è dunque la necessità di pensare un’alternativa alla mimesi dell’esperienza, ed è qui che il sogno torna utile all’analisi al fine di fornire un modello d’elaborazione del contenuto traumatico più ricco, complesso e in definitiva antimimetico nelle sue forme allucinate — come ad esempio nell’esperienza di The Key (Tricart, 2019). Un processo quest’ultimo che, essendo lontano dal paradigma «manipolatorio della macchina dell’empatia», ci metterebbe in contatto con la nostra propria «diaspora personale» di modo che insieme a essa si possa «meglio intuire quella altrui, dal portato storico e collettivo» (ivi, pp. 147-148) nel suo accompagnarci per poter essere meglio elaborata nel mondo esterno al visore in maniere non premediate dalla configurazione del dispositivo immersivo. La storia della continuità tra immersività e sogno è allora utile per riflettere su un dispositivo che ci permetterebbe di accedere — per la prima volta e in maniera inedita — all’elaborazione di un rimosso collettivo

Riferimenti bibliografici
G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
G. Plazzi, Paralizzati nel sonno. Mummie, demoni e fantasmi: storie di paralisi del sonno e allucinazioni ipnagogiche, 18 aprile 2019, in https://www.iltascabile.com/scienze/paralisi-sonno/ [05/06/2021].

G. Grossi, La notte dei simulacri. Sogni, simulacri, realtà virtuale, Johan & Levi, Monza 2021.

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