Sinistre pulsazioni di synth bass fanno da bordone alle prime sequenze di The Long Night, terzo episodio della stagione conclusiva di Game of Thrones. È la linea d’orizzonte di un paesaggio sonoro costituito da passi concitati, voci sommesse, improvvisi strepiti, isolati nitriti. Il soundscape di questo episodio è tanto più decisivo quanto più le informazioni visive sono ridotte dal bagno di tenebre, e il design sonoro si giova di tutto il lavoro pregresso, ben noto allo spettatore/ascoltatoreLa musica di Ramin Djawadi, compositore iraniano-tedesco con un apprendistato importante nell’entourage di Hans Zimmer, ha dato un contributo fondamentale alla costruzione di quello che è stato definito “medievalist soundscape” (Cook, Kolassa, Whittaker 2018). Il medievalismo contemporaneo (Umberto Eco fu il primo in assoluto a rilevarlo, parlando di “neomedievalismo fantastico”) è un atteggiamento nostalgico e dunque immaginativo. Questa opzione risulta evidente nel lavoro di Djawadi fin dal celebre tema dei titoli di testa, a livello melodico, armonico, ritmico e metrico. Anzitutto nell’ambigua figura di terza maggiore e poi minore nel motivo di apertura alcuni riconoscono l’instabilità cromatica delle antiche terze e seste della musica ficta o “falsa musica”, l’espressione con cui si indicava nel Medioevo la trasposizione dei suoni della scala naturale mediante l’impiego del bemolle e del bequadro. Il neomedievalismo fantastico dello spartito si precisa ulteriormente mediante l’intervallo di quinta nella melodia, e questo “sapore” si intensifica attraverso il ritmo (3/4 e 6/8), con una struttura accentuativa basata su sequenze ripetute di giambi.

Questo brand musicale fissato nella sigla trova conferma nello scoring degli episodi, piuttosto parco a livello quantitativo, come è stato puntualmente rilevato da Janet K. Halfyard (2016). Fa eccezione, sia in quantità di musica sia in qualità, il terzo episodio della stagione finale. Quando Melisandre invoca il Signore della Luce e le lame dei Dothraki si infiammano, il compositore ripresenta uno dei numerosi temi che ha creato nel corso delle otto stagioni, in base a un approccio cinematografico allo scoring televisivo: cinematografico perché predispone un materiale tematico che viene prima esposto e poi variato, per procedere verso quel senso di risoluzione fornito dalla cadenza. Quale che sia lo stile prescelto, questo approccio è caratteristico di una forma chiusa, come quella del film; il film è costretto dal proprio statuto ad arrivare a un punto, a un’ultima immagine, a un’ultima azione, a una cadenza. In ambito televisivo, un intervento di taglio cinematografico come quello di Djawadi in Game of Thrones corre dunque almeno due rischi: la ripetitività e l’assenza di conclusione. Come si risolve questa contraddizione strutturale? La risposta va cercata nell’analisi stilistica della musica per le attuali serie televisive.

In tal senso, il serial drama contemporaneo trova una sua traduzione ideale nello stile postminimalista di Max Richter (The Leftovers, Taboo, Black Mirror, L’amica geniale), che ha nel proprio programma estetico e narrativo l’assenza di chiusura; sostiene a questo proposito Gaia Varon (2019): «La musica postminimalista non conduce mai la storia verso una conclusione, non la porta in alcuna direzione». Un tratto distintivo di questo stile è la sua estrema adattabilità e applicabilità ai più svariati mondi narrativi, basti pensare al main title theme scritto da David Buckley per la serie legale The Good Fight. Più che narrare, la musica postminimalista tende all’universale astratto, al concetto e non all’aneddoto: a questo obiettivo concorrono le strutture tonali statiche e i criteri di ricorsività derivati dai padri del minimalismo. Diversamente dalla ricercata austerità dei suddetti padri, il postminimalismo non disdegna il sentimento, da cui l’aggettivo “romantico” che spesso si associa al lavoro di compositori per il cinema come Hans Zimmer. La sensazione è che attualmente l’arte televisiva si stia muovendo in una direzione concettuale, e con essa la sua musica, attratta dal lessico postminimalista.

L’episodio The Long Night sembra dunque paradigmatico nell’individuare uno spostamento di Ramin Djawadi dal neomedievalismo al postminimalismo, che già si annidava nelle sue strutture profonde. Proprio nell’imminenza dell’attacco dei Dothraki (11:10) riesplode il ritmo giambico altamente ricorsivo che è il brand musicale della serie, accompagnato in questo caso da grida bellicose analogamente iterate. Ma è nella coda dell’episodio, a partire da 1:05:00, che si distende la suite The Night King, con una liquida, meditabonda introduzione pianistica in assoluto contrasto con l’azione rappresentata: i suoni d’ambiente, violenti e guerreschi, finiscono in un secondo piano sonoro, ovattato e distante, con la sezione degli archi che fa il suo ingresso dopo cinque lunghissimi minuti. Con l’orchestra al completo siamo in un clima compiutamente richteriano e postminimalista, a disegnare quello che lo stesso Djawadi ha definito un segmento a sé stante nella storia musicale di Game of Thrones.

In verità non si tratta della sua prima incursione nel postminimalismo. All’interno della stessa serie, il compositore aveva già esplorato queste possibilità espressive nell’episodio conclusivo della sesta stagione (The Winds of Winter), non per chiudere l’episodio, ma per aprirlo: la suite di dieci minuti, intitolata Light of the Seven, si può considerare il primo intervento pianistico in Game of Thrones e anche il primo tentativo di creare alternative alla musica epica come norma intrinseca della serie. In altri progetti seriali, in particolare in Westworld e in Person of Interest, Djawadi ha del resto fatto ampio uso del lessico postminimalista, che costituisce uno strumento espressivo organico ad almeno due istanze del serial drama contemporaneo: la prima è la procrastinazione infinita; la seconda è la concettualità.

È significativo che la sola cadenza possibile di The Night King sia extramusicale: la suite è interrotta dal grido di Arya Stark e dal rumore terrificante delle mani mortifere che si stringono sul collo della ragazza, cui fa seguito un metafisico larsen che accompagna la caduta del pugnale, fino alla sinfonia di vetri infranti che esplode nella piana di Winterfell. Nella conclusione dell’episodio la musica è in un certo senso restaurativa, vale a dire che riafferma lo stile neomedievalista già noto, ma la cesura stilistica introdotta da Djawadi nel climax fa riflettere sul rapporto tra opera chiusa e opera aperta, tra partitura musicale e soundscape, tra storia ed ecosistema, tra narrazione e concetto.

Riferimenti bibliografici
J. Cook, A. Kolassa, A.Whittaker (eds.), Recomposing the Past: Representations of Early Music on Stage and Screen, Routledge, London-New York 2018.
J.K. Halfyard, Sounds of Fear and Wonder. Music in Cult TV, I.B. Tauris, London-New York 2016.
G. Varon, Floating around in amniotic fluid: Music as a Device to Challenge Orientation in Space and Time in the HBO Series “The Leftovers”, relazione al convegno Mapping Spaces, Sounding Places: Geographies of Sound in Audiovisual Media, Cremona 19-22 marzo 2019.

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