La trasformazione dell’uomo in animale è uno dei temi più ricorrenti della letteratura e certamente non possiamo trattarlo rinunciando all’esordio de La Metamorfosi di Kafka: «Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo». Come osserva Gilles Deleuze, insieme a Guattari (1996), i racconti di Kafka sono essenzialmente racconti d’animali, benché in alcuni di animali non si parli affatto. L’animale coincide con l’oggetto del racconto ed è per questo che anche nella sua assenza è comunque presente.

In tutte le trasformazioni dell’uomo in animale lo sguardo è un elemento centrale. Non solo quello di chi osserva la propria metamorfosi ma anche di chi vi assiste. Su questo rapporto tra soggetto osservante e soggetto trasformato si gioca tutto il senso delle diverse metamorfosi. Lo sguardo di Gregor Samsa poi si sposta continuamente, come a voler afferrare ogni angolatura del suo mutamento. Dopo aver sollevato la testa per vedere l’addome arcuato, guarda la finestra e il cielo coperto, poi dà un’occhiata alla sveglia e si accorge di essere in ritardo. Tutta la tensione della prima parte del racconto si concentra sulla paura di essere visto. La scoperta del proprio corpo, divenuto animale, sembra quasi secondaria rispetto a questo terrore. Il dramma comincia quando la madre, la sorella, il padre e infine il procuratore bussano alla sua porta, implorandolo di uscire. Deleuze e Guattari scrivono: «L’occhio di un padre o di una madre non deve vederlo, ma soprattutto non deve vederlo l’occhio di una sposa» (ivi, p. 62). Essere osservati da loro interromperebbe infatti quella via di fuga a cui mira il divenir animale.

Il corpo, trasformandosi, scappa da sé stesso. L’essenza animale è la via d’uscita, anche senza spostarsi dalla stanza. Non è necessario quindi muoversi per portarla a compimento. L’allontanamento avviene dall’interno. È quello che succede nei quadri di Bacon, in cui la Figura è isolata ma non per questo rinuncia a fuggire. Il vero acrobata, scrive Deleuze, è colui che resta immobile nel cerchio. Ciò che interessa a Bacon infatti non è disegnare il movimento, sebbene la sua pittura ce lo restituisca in forma intensa e violenta, ma afferrarlo sul posto, mostrando l’azione sul corpo di forze invisibili, che lo deformano.

La metamorfosi kafkiana e lo sguardo sconvolto del genitore di fronte al figlio trasformato, li ritroviamo anche nel finale de La Mouche, spettacolo liberamente ispirato all’omonimo testo di George Langelaan e andato in scena al Théâtre des Bouffes du Nord. Sebbene il nome di questo scrittore francese sia ormai da tempo sparito, quando il testo de La Mouche apparve nel 1957 per la prima volta, in inglese, con il titolo The Fly sulla rivista Playboy, venne definito dai suoi contemporanei «il racconto più terrificante del XX secolo». Si tratta di uno di quei casi in cui la trasposizione cinematografica diviene più celebre dell’opera che l’ha ispirata.

Fu David Cronenberg nel 1986 a lavorare ad un adattamento cinematografico del racconto di Langelaan, inaugurando così il genere del body horror. Ma prima di lui, nel 1958, lo aveva già fatto il regista Kurt Neumann, con il film L’esperimento del dottor K. Rispettando lo schema narrativo del romanzo poliziesco, il racconto si apre con la scoperta di un crimine. François viene svegliato nel cuore della notte dalla cognata, che gli confessa di aver ucciso suo marito, Robert Browing, il quale era impegnato in una ricerca sul teletrasporto. Ma qualcosa nell’esperimento non funziona. Una mosca entra nella macchina nello stesso momento in cui Robert la sta testando su di sé. Questo provoca uno scambio di atomi irreversibile, trasformando Robert in una mosca. Sarà lui stesso, dopo l’esperimento fallito, a chiedere a sua moglie di ucciderlo.

Ma ciò che è sorprendente nello spettacolo La Mouche, diretto da Valérie Lesort e Christian Hecq, è la scelta di far incontrare due mondi, quello del racconto fantascientifico di Langelaan e un episodio di Strip Tease, trasmissione televisiva belga di grande successo. È il 1993 quando va in onda «La soucoupe et le perroquet», l’episodio più conosciuto di questa trasmissione. A Germinac, in Francia, Jean-Claude Letrot e sua madre, Suzanne Saget, vivono in campagna. Lui lavora da anni alla costruzione di un disco volante e lei lo asseconda nelle sue ricerche. Lui trascorre la maggior parte del tempo a progettare e a cercare materiali per portare a termine la sua grande impresa spaziale: raggiungere la stella Altaïr. È così ostinato che non abbandona mai il disco volante. Addirittura, vi dorme dentro. Ascoltando i dialoghi tra madre e figlio si finisce per credere alla realizzazione di questo progetto, talmente la quotidianità di queste persone si è radicata attorno a quest’idea.

L’originalità dell’adattamento che i registi Lesort e Hecq propongono consiste nell’utilizzare il materiale narrativo del racconto di Langelaan e quindi le ricerche di Robert sul teletrasporto e l’incidente della mosca nell’esperimento, per trasporlo nelle vite di Jean-Claude e sua madre. In questo modo l’ossessione per la scienza si inserisce all’interno di un rapporto malato tra madre e figlio. Il desiderio di Jean-Claude è come quello della talpa nel racconto La tana di Kafka, con una differenza però: invece di scavare nel terreno, cercando vie d’uscita e creando false gallerie, per illudere il nemico, lui vuole raggiungere il cielo.

Nello spettacolo si ritrova quindi una perfetta sintesi tra i personaggi che si incontrano ne La Mouche di Langelaan e quelli che conosciamo attraverso «La Soucoupe et le perroquet». Anche i nomi non sono gli stessi. Solo Robert porta il nome dello scienziato nel racconto. Così, non siamo veramente di fronte a nessuna delle figure a cui i registi affermano di essersi ispirati ma abbiamo il rapporto di Jean-Claude con la madre, incontrato nell’episodio della trasmissione belga e la macchina del teletrasporto ideata da Robert, raccontata da Langelaan. Potremmo dire che la «La Soucoupe et le perroquet» ha offerto ai registi non solo la possibilità di analizzare un rapporto analitico così complesso ma anche di costruire uno scenario.

La campagna in cui Jean-Claude e sua madre vivono infatti rende bene il senso di isolamento di questa famiglia, che forse aumenta il desiderio del figlio di cercare un altrove. Così come Jean-Claude vuole scavare il cielo per trovare delle vie di fuga, anche Robert, con la sua macchina del teletrasporto, vuole dematerializzare il suo desiderio. Domanda alla macchina di fare quello in cui lui ha fallito: sparire per pochi istanti per poi ricomparire altrove.

Proprio lui che non ha il coraggio di reagire, di trasformare la sua vita, finisce per essere trasformato in animale. Robert, quando è steso a terra in giardino, mentre la madre lo guarda terrorizzata prima di seguire il suo consiglio e sparargli, somiglia a una Figura di Bacon. Il prato ricorda il cerchio in cui sono isolati i soggetti raffigurati. La madre, che osserva, è fuori da esso. E nel morire sembra sentirlo pronunciare alcune parole dei Diari di Kafka: «Non posso ammettere in alcun modo che gli inizi della mia infelicità siano stati intimamente necessari; può darsi che abbiano avuto una necessità ma non interiore, essa arrivò in volo come le mosche e come queste si sarebbe potuto schiacciarla facilmente» (Kafka 2013, p. 613).

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore. Quodlibet, Macerata 1996.
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione. Quodlibet, Macerata 1995.
F. Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 2013. 

La Mouche. Testo: George Langelaan; regia: Valérie Lesort e Christian Hecq; interpreti: Christian Hecq, Valérie Lesort, Christine Murillo, Stephan Wojtowicz; musica: Dominique Bataille; scene: Audrey Vuong; costumi: Moïra Douguet; luci: Pascal Laajili; durata: 1h 30′.

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