L’undici giugno 1982 viene pubblicata sul numero 1724 della rivista Paris Match l’ultima, struggente lettera per Romy Schneider che Alain Delon scrive dopo la sua morte. In quella lettera, intitolata Adieu, ma puppelé – «Ça voulait dire “petite poupée”, en allemand», scrive Delon –, sono condensati i dolori e le gioie della vita dell’attrice, il cui cuore ha smesso di battere troppo presto. Accanto all’incontro fatidico tra i due, Delon non può non porre l’accento su chi e cosa ha reso la vita di Romy un inferno: «Una bambina che è diventata una star molto e troppo presto»; i pennivendoli della stampa; la tragica morte del figlio quattordicenne David. La solitudine silenziosa che soffoca ogni mito nel momento in cui le luci della ribalta si spengono, quindi il rifugio nell’alcool e nei farmaci.

Tuttavia, l’obiettivo del montaggio di materiali differenti – telegrammi, lettere, film, fotografie, abiti di scena, videointerviste –, su cui è costruita la mostra che la Cinémathèque française, fino al 31 luglio, dedica a Romy Schneider, è di mettere in luce chi era l’attrice al di là del carattere tragico che le è stato attribuito. Nel comunicato stampa della mostra, la curatrice Clémentine Deroudille, facendo leva su ciò che Romy Schneider ha detto di se stessa – «In realtà, ero semplicemente avanti rispetto al mio tempo. Nell’epoca in cui non si era ancora parlato di liberazione della donna, ho iniziato una mia personale liberazione. Ho costruito io stessa il mio destino, e non me ne pento» –, esprime la necessità di dare la parola all’attrice, nel tentativo di costruire un’altra sua immagine, irriducibile alle tragedie che hanno caratterizzato la sua vita e che si sono riflesse nei personaggi dei film che ha interpretato.

È infatti Romy Schneider a raccontare degli attori, dei registi, dei film che hanno segnato la storia del cinema. Attraverso delle citazioni iscritte su pannelli che scandiscono le tappe del suo lavoro, nonché della sua vita, ma senza soffermarsi sull’aspetto tragico di quel lavoro e di quella vita, a Romy è restituita la voce di donna. Racconta delle sue origini, dei primi film accanto a quella madre irretente da cui prende persino il cognome d’arte; del suo desiderio di diventare un’attrice, ma abbandonando il ruolo e l’immagine di Sissi – abbandonando dunque il suo essere simbolo nazionale attorno a cui ruotava tutto un sistema finanziario –; racconta dei registi con cui ha lavorato (tra gli altri: Luchino Visconti, Alain Cavalier, Orson Welles, Henri-Georges Clouzot, Claude Sautet). I rapporti con gli Stati Uniti; ancora il rapporto teso tra il mondo austro-tedesco, che accusa Alain Delon e con lui tutta la Francia di aver rubato l’“imperatrice”, fin dunque ad arrivare all’incarnazione della donna francese, ipermoderna; l’impossibilità di ottenere una tranquillità familiare – un focolare domestico –, da Romy in parte agognata, a causa del suo lato più selvaggio, più ribelle, più vagabondo che, alla fine, prende il sopravvento. “L’ombra della Germania” e il tentativo dell’attrice di esorcizzare i rapporti della famiglia con il Terzo Reich. La necessità di cambiare, di metamorfizzarsi, di reclamare – si legge in un pannello – «une souvraine liberté», di liberare la propria immagine e il proprio corpo, incessantemente.

Dal montaggio imbastito alla Cinémathèque, non c’è dubbio, viene fuori l’immagine di una donna contro, di un’attrice divenuta icona, incarnazione di una donna moderna intrisa di mistero, irriducibile alle tragedie della sua vita. E, forse, irriducibile anche a se stessa. Dopo aver attraversato la prima parte del percorso, che riproduce la struttura di una sontuosa imbarcazione che compare nei film di Ernst Marischka, al cui interno è incastonato uno schermo che mostra le immagini dei celeberrimi film dedicati all’imperatrice d’Austria; dopo aver visionato le locandine dei primi film – tra cui Ragazze in uniforme (1958), dove l’attrice interpreta il ruolo di una studentessa che si innamora della sua insegnante – in cui Romy Schneider tenta di andare al di là di Sissi e il cui ruolo accetta di riprendere solo per Luchino Visconti in Ludwig (1972), si giunge alla “nascita francese” dell’attrice. La sala, che mette insieme i materiali relativi ai rapporti di Romy con Visconti, Welles, Cavalier, Clouzot, presenta al suo centro una grande scatola, al cui interno vengono proiettati alcuni estratti del film incompiuto L’Enfer (1964) di Henri-Georges Clouzot.

Tra luci psichedeliche, immagini plastiche e ipermoderne, esplosioni di colori, distorsioni sonore create da Clouzot e dai suoi collaboratori, Romy è mostrata come non mai: misteriosa, sensuale; la sola a resistere – si legge nel pannello dedicato al rapporto tra l’attrice e Clouzot – al perfezionismo del regista, alle sue innumerevoli e instancabili sperimentazioni, perché mossa dalla volontà di crescere sul piano artistico, di liberarsi incessantemente dai ruoli in cui il suo corpo e la sua immagine vengono di volta in volta pietrificati. Romy, che ama la provocazione, che ama mostrarsi sensuale; che più avanti sceglierà di lavorare con registi giovani e ancora poco conosciuti – Francis Girod, Andrzej Zulawski (nel meraviglioso L’important c’est d’aimer, 1975) –; che sceglie di interpretare donne forti, ribelli, singolari, per riprendere sempre, di volta in volta, il possesso del suo corpo e della sua immagine. In L’Enfer, infatti, il corpo dell’attrice viene incessantemente deformato, quasi metamorfizzato. Romy diventa a tratti mostruosa; un mostro generato dagli spettri che popolano la finzione. Nella finzione, là dove ha sempre cercato riparo dalle sue tragedie, Romy Schneider ha trovato un luogo per disfarsi ogni volta; per rinascere disfacendosi, non per nascondere i suoi drammi, ma per esorcizzarli, anche se non sempre con successo.

In effetti, in quella scatola al centro della sala, in quella sorta di boudoir, così angusto e intimo, perché, per perdersi nelle immagini di Clouzot che mostra una Romy mai vista prima, è forse preferibile ritrarsi nella più assoluta solitudine, viene da chiedersi se nella nuova mitizzazione al femminile che alla Cinémathèque viene fatta dell’attrice, non sia forse opportuno domandarsi se è davvero possibile ritrarre Romy Schneider come colei che ha tentato di rendere tanto il suo corpo, quanto la sua immagine, sovranamente liberi, mettendo da parte la tragedia che ha caratterizzato il suo essere una donna moderna.

Dal documentario L’Enfer d’Henri-Georges Clouzot, che nel 2009 Serge Bromberg e Ruxandra Medrea hanno dedicato al dannato e incompiuto film del regista francese, spettrale così come infestata da spettri era la materia stessa del lungometraggio, vediamo che Clouzot aveva deciso di legare Romy nuda sul binario del viadotto ferroviario Garabit (progettato da Gustave Eiffel). È una scena curiosa: Romy, che progressivamente verrà innalzata a simbolo della femminilità moderna (soprattutto grazie a Sautet), nelle allucinazioni di Clouzot, nelle immagini di quel film maledetto che avrebbe dovuto rivoluzionare il cinema, urla, e il suo urlo si unisce fino a confondersi con il fischio assordante di un treno – inconfondibile simbolo della nascita del cinema – che sta per investirla. Come se quella scena potesse divenire l’allegoria del fin troppo delicato ruolo della donna nell’industria cinematografica; il posto della donna nella modernità.

Nell’ultima lettera per l’attrice, da cui abbiamo preso le mosse, Delon scrive che, in fondo, Romy Schneider non poteva accettare né comprendere il gioco della donna pubblica che lei stessa aveva scelto e che amava: non sopportava di essere attaccata; di essere violata nella propria intimità dalla folla avida di spettacolo che, a detta dell’attore, spaventava terribilmente Romy. Quella folla, che non immaginava nemmeno che quell’attrice riusciva a rendere così brillantemente sullo schermo tragedie che erano il riflesso di quelle della sua vita. Viene allora da pensare che la volontà di Romy di ottenere una “libertà sovrana” non è forse indissolubile dall’aspetto tragico della sua vita. Perché è forse quella stessa modernità che Romy incarna ad avere in sé un carattere tragico.

È allora possibile ritrarre un’attrice come una donna moderna al di là del carattere tragico di quella stessa modernità? Probabilmente, ripensando oggi alla libertà sovrana che, tra gli anni sessanta e settanta, Romy Schneider tentava di ottenere contro tutto e tutti per liberarsi ogni volta dai cliché in cui la sua immagine e il suo corpo venivano pietrificati – fosse anche il cliché della donna moderna, libera –, occorre chiedersi se il femminile stesso non debba essere ripensato al di là di ogni mitizzazione, sia pure, appunto, la mitizzazione della donna in quanto libera. Ma libera da cosa, dopotutto? Non è forse oggi in nome della libertà che il femminile viene irretito in una visione quasi manageriale che pure rimane all’interno di una logica e di un linguaggio che non fanno altro che perpetrare una sorta di supremazia del corpo proprio? Non si rischia, in fondo, di inserirsi all’interno di un ordine del discorso che non abbandona i dettami di un certo progressismo dei linguaggi e dei gesti, tanto da non riuscire a reinventare un altro modo della singolarità femminile? Come restituire la parola a una donna contro, ma sottraendo quella stessa parola alla logica dell’affermazione di sé?

Nel 1971, Romy è stata una delle 374 donne tedesche a dichiarare, in un manifesto, di aver abortito. Ha preso coscienza dei rapporti della famiglia con il Terzo Reich e ha tentato di “espiare”, con il suo corpo e la sua immagine, quella “colpa”; ha tentato in tutti i modi di svincolarsi dall’immagine della donna simbolo di una nazione; ha finto di essere un’altra donna, con un’altra lingua, con un’altra storia, per poi distruggere e reinventare, fino alla fine della sua vita, ancora un’altra donna, un’altra storia, un’altra vita. Moderna. Ma quei tentativi attestano forse l’impossibilità di concepire la conquista di una modernità senza il suo carattere tragico: quanto costa quella libertà?

La curatrice della mostra, Clémentine Deroudille, e Lucie Cariès, hanno presentato all’edizione 2022 del Festival di Cannes il documentario Romy, femme libre. L’intenzione, così come avviene nella mostra, è di restituire a Romy, in quanto donna determinata e indipendente, la parola. Nel comunicato stampa di France Tv si legge che la lavorazione dei materiali d’archivio per la creazione del documentario è tesa a mostrare che «se Romy ha sempre rifiutato di essere femminista, la sua intera vita mostra il contrario. La sua eccezionale forza di carattere l’ha spinta a vivere come un uomo, in un momento in cui questo non era stato fatto». Il montaggio di materiali d’archivio – come se fosse un’operazione neutrale – permette dunque a Romy di raccontare la sua vera vita, smettendo di essere un “oggetto di fantasie”; di raccontare del suo tentativo di dare un corpo libero alla sua immagine. Quando, però, oggi, si riflette su una donna contro del cinema, che si definiva «une comediénne, pas une star», la nostra sfida non è forse di sottrarre la sua immagine e il suo corpo spettrali persino al tentativo di edificare un nuovo mito della donna, sia pure in nome di un certo modo di intendere la libertà, rivoltando lo stesso carattere tragico – per non dire catastrofico – del femminile moderno?

In una scena cruciale di Adieu au langage di Jean-Luc Godard, riflettendo sul rapporto tra noi e il mondo, sul nostro agire contro “la libertà pura” – il «je parle, sujet; j’écoute, objet» sembra essere l’inizio della fine di quella possibilità di essere puramente liberi –, un uomo dice a una donna, che abbandona il marito desideroso di essere un individuo: «Hai rinunciato a tutto. Fai un passo in più: rinuncia alla libertà stessa e tutto ti sarà reso». Come ripensare assolutamente la libertà femminile, nel periodo in cui persino la libertà diventa un dispositivo attraverso cui performare, mitizzare il femminile, rendendolo alla portata esclusiva di una certa parte della popolazione mondiale, e che sia dunque all’altezza della catastrofe da cui è inseparabile?

Romy Schneider, Cinémathèque française, Parigi, 16 marzo – 31 luglio 2022.

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