Per chiunque ami il lavoro di Franco Maresco, ci sono molti modi per leggere La mia Battaglia, il libro che raccoglie le conversazioni del regista con la fotografa Letizia Battaglia, scomparsa poco più di un anno fa e variamente celebrata, in vita così come dopo la sua morte. In nessun modo, va detto subito, per evitare equivoci, La mia Battaglia è un libro celebrativo e dunque scontato. Forse addirittura non è un libro che nutre, a dispetto del titolo, la pretesa di raccontare chi era Letizia Battaglia, neanche la Letizia Battaglia di Franco Maresco, quella che è apparsa negli ultimi due film di Franco Maresco: La mia Battaglia Franco Maresco incontra Letizia Battaglia (2016) e La mafia non è più quella di una volta (2019).

Si può leggere, per esempio, questo volume uscito da poco per Il Saggiatore, come un libro su Palermo e sul cinema, malgrado, forse, le intenzioni che lo animano e i discorsi che lo attraversano. È una dichiarazione d’amore e di odio per una città, che è poi ciò che unisce, prima di ogni altra cosa, Franco e Letizia, palermitani entrambi e animati, allo stesso modo, da sentimenti ambivalenti nei confronti di un luogo che è tante, molte cose, e che per questo non consente — a chi lo vive quotidianamente — di tenere una posizione neutrale.

Insieme a Palermo, Franco Maresco e Letizia Battaglia condividono infatti la scelta, ampiamente rivendicata, del voler stare sempre — orgogliosamente — da una sola parte, differentemente scomoda per entrambi; che è poi la posizione da cui il regista e la fotografa hanno raccontato la città, con il cinema e la fotografia, appunto. Di questa decisione parlano, con la confidenza che contraddistingue un rapporto intimo di amicizia e non semplicemente in virtù della relazione che inevitabilmente lega due che fanno, in un certo senso, lo stesso mestiere: osservare il mondo e raccontarlo (e forse chissà anche inventarlo in qualche caso), con le immagini prima di tutto.

Palermo rappresenta tutto il mondo e per questa ragione è anche tutto il cinema: non soltanto perché a Palermo si sono girati molti, moltissimi, film, ma perché è cinematografico tutto quello che a Palermo accade. Sono cinematografici luoghi, volti, intrighi. Persino la mafia, che occupa gran parte delle conversazioni raccolte nel volume, interessa ai due artisti, non tanto — o non soltanto — in quanto fenomeno criminale e sociale, né — forse — come fatto politico.

Quello che interessa Maresco che, su questo punto, interroga la Letizia Battaglia fotografa di mafia a più riprese, sono piuttosto le storie di mafia e i loro protagonisti, a ogni livello, dal più basso al suo livello, perché sono questi che possono, in ogni momento, e a buon diritto, entrare dentro la scrittura di un film. Alle storie di mafia, insomma, Maresco riconosce una forza narrativa che si ritrova facilmente anche negli scatti di Letizia Battaglia, che congelano evocativamente, in una sola immagine, tutta la prepotenza di una tragedia greca.

Ciascuna delle fotografie che hanno reso celebre il lavoro di Letizia Battaglia è un fotogramma di un film che Maresco stesso avrebbe potuto girare, oltre che un pezzo importante del racconto di una città complicata come Palermo. Forse anzi di più, Palermo sta tutta là, nella potenza orrorifica e abbagliante allo stesso tempo, della sua immagine; quella che Maresco e Battaglia hanno saputo cogliere e condividere con i loro spettatori. Un’immagine che forse, anzi certamente, non ha più nulla a che fare con la realtà, perché è già il frutto di un’invenzione, ma che però, proprio per questo, ha accesso a qualcosa come un “verità”, persino quando si parla di verità scomode, come nel caso di storie di mafia.

Attorno a tutto questo complesso vortice di tensioni estetiche, politiche, amicali, si costruiscono le conversazioni fra Maresco e Letizia, attorno alla capacità di una città di diventare il mondo intero, operazione che evidentemente solo l’arte può immaginare. Ed è così che le persone di cui si parla (il sindaco Orlando, Franco Scaldati, Marcello Dell’Utri) sono, nella loro incommensurabile diversità, se visti in controluce, i personaggi di un racconto universale: il buono, il brutto, il cattivo, potremmo dire; funzioni generiche del racconto, più che nomi propri e singolari. Si può forse osare e sostenere che il racconto di cui stiamo parlando — di cui, meglio, parlano Letizia Battaglia e Franco Maresco — descrive un mondo che rimanda, per carattere e prossimità (seppur non geografica) a quello che abbiamo visto in tanti film western, primi fra tutti quelli di John Ford, il regista che Maresco dichiara di amare più di ogni altro.

È l’ipotesi che Emiliano Morreale avanza in uno dei suoi ultimi volumi, La mafia immaginaria. Settant’anni di cosa nostra al cinema (1949-2019): che i film di mafia abbiano costituito, dentro la storia del cinema italiano, un vero e proprio genere, parente lontano del western americano; genere dal quale anche il cinema di Maresco, pur se nella sua assoluta unicità, è in qualche forma contaminato.

E se la suggestione regge, se Palermo è la capitale del west, non solo siciliano, allora i film di Maresco — dai primissimi, con Daniele Ciprì, fino a quelli girati negli ultimi anni — sono tutti, in un certo senso, dei western, che forse hanno perso la “grande forma” dei classici hollywoodiani, ma che di essi conservano alcuni tratti specifici: le ambientazioni in luoghi dai confini incerti, collocati appena al di là della fine della civiltà; una indubbia predilezione per i personaggi maschili, che sono, in entrambi i casi, testimoni di un mondo in via di disfacimento; ma soprattutto un pervasivo sentimento nostalgico nei confronti di una presunta, perduta età dell’oro, sprofondata nella notte di un passato imprecisabile, almeno quanto sono sfumati i confini del west.

È questo sentimento che attraversa ogni parola pronunciata di Maresco, che non perde occasione per dichiarare la sua nostalgia per tutto ciò che semplicemente non c’è più, ma soprattutto la sua profonda sfiducia nei confronti del presente e, ovviamente del futuro. Il cinema, non c’è bisogno di dirlo, non fa eccezione. C’è stato il tempo di un grande cinema, quello che si girava in pellicola, di cui ora non rimane quasi più nulla, tranne forse — viene da obiettare — il cinema di Maresco, che è la prova più lampante che qualche ragione per continuare a sperare, come in più di un passaggio ripete Letizia Battaglia, c’è ancora.

Precisamente su questo punto, si consuma la separazione più radicale fra i due amici: inguaribile pessimista lui, cinico persino, battagliera piena di belle speranze lei. Ed è proprio questa opposizione dialettica fra le convinzioni più solide dei due a funzionare come elemento strutturante l’intera loro conversazione, in maniera quasi programmatica o forse vale la pena dire, fondatamente teorica. Franco dice nero, Letizia risponde bianco e così di seguito su tutti gli argomenti su cui a lungo si intrattengono. Eppure, mi viene da dire, come in ogni processualità dialettica che si rispetti, gli opposti esistono solo per consentire la sintesi che anche Maresco e Battaglia, volontariamente o no, perseguono e che la loro amicizia incorona, come questo libro perfettamente dimostra.

Un raffinato gioco delle parti, anche questo, in cui Letizia e Franco interpretano pure loro due ruoli da protagonista, a cui nessuno dei due è disposto a rinunciare, in questo libro, come nei film in cui compaiono insieme. Ma appunto, in un certo senso, le ragioni della contrapposizione che Maresco e Battaglia mettono in scena si trasformano, lentamente, nel loro contrario. E allora, è letteralmente vero che la battaglia, le battaglie della fotografa diventano quelle del regista che, sebbene non lo ammetterebbe mai, continua a lottare, continuando a fare film, forse anche grazie all’incontro con il corpo e lo spirito combattente di Letizia.

C’è ancora una volta Palermo a fare da garante a questa alleanza, la città che si critica ferocemente, forse persino, nel profondo, si detesta, che però non si lascia mai, come Maresco, o in cui non si smette di tornare, come nel caso di Letizia Battaglia. E c’è pure la stessa, incrollabile, fiducia nelle immagini che sono forse la sola forma di redenzione che due artisti come Maresco e Battaglia possono arrivare a concepire, per salvare sé stessi e la loro città, e forse il mondo intero, pur sapendo che si tratta di un gesto impossibile.

Franco Maresco, La mia Battaglia. Conversazioni con Letizia Battaglia, Il Saggiatore, Milano 2023.

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