Lo specchio è il re di tutte le metafore; è un oggetto invisibile che rende visibile un mondo che non è mai esattamente uguale al nostro. Lo specchio è l’archetipo del nostro esistere, sempre proiettato a fare nostro l’altro da noi. È un ossimoro concreto ed è una superficie fragile ma dura che delimita un mondo reale da un mondo riflesso. È possibile rintracciare ed elencare gli infiniti usi metaforici che questo oggetto enigmatico ha moltiplicato? L’impresa, lo confesso, è di quelle da far tremare i polsi, ma Andrea Tagliapietra non si è lasciato intimidire e, un po’ come il capitano Achab, ne ha fatto la sua balena bianca. Dopo precedenti pubblicazioni in merito, giunge in libreria la sua ultima summa, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine (Donzelli Editore, 2023).

Il libro è una vera miniera di notizie e intuizioni e presenta, in 464 pagine tanto dense quanto piacevolmente erudite, l’evoluzione della metafora dello specchio nel pensiero occidentale da Dioniso e Narciso fino alla glassy essence di Charles Sanders Peirce e oltre. Lo specchio è il filo rosso che lega mito, riflessione filosofica, indagine scientifica ed esistenza umana. È un labirinto che moltiplica all’infinito l’esistente e che non sembra trovare pace nelle convulsioni letterario-filosofiche cui viene sottoposto incessantemente durante il succedersi dei secoli. Lo specchio è una metafora incarnata. La sua essenza è metaforica nella misura in cui il suo essere coincide con il portare a manifestarsi delle presenze di qualcosa di diverso. Lo specchio, quindi, è una metafora al quadrato, se possiamo parlarne metaforicamente.

Lo specchio, anche quando non è inteso in modo simbolico, è comunque altro da sé; una caratteristica in comune con la mente. Non è un caso che lo specchio e la persona condividano questa proiezione ontologicamente scandalosa a uscire da sé stessi. Come scrisse Borges in Finzioni, «gli specchi hanno qualcosa di mostruoso […] uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini». È significativo che la copula, sia in senso erotico che ontologico, catturi la cifra dell’esistenza dell’individuo e venga paragonata allo specchio. Ma non basta. Lo specchio, con un piccolo colpo di sorpresa, non si limita a moltiplicare gli oggetti, è lui stesso che si moltiplica e si articola in entità une e trine, per così dire: l’immagine, lo spettatore, il riflesso, la materia, la forma. Come l’anima di Aristotele, lo specchio è in potenza tutte le cose.

Specchio e persona sono legati da una natura comune – la citata glassy essence di Peirce – che nella nudità di un rapporto semiotico sopravvive grazie al rapporto con il mondo. Ma lo specchio, quindi, esiste o è solo una piega della realtà che noi reifichiamo per giustificarne la struttura? Se non ci fossero immagini e spettatori, gli specchi continuerebbero a riflettere? Idealismo e materialismo si intrecciano anche nella fenomenologia dello specchio che, per definizione, richiede di avere un ruolo fenomenico. Tagliapietra confronta i due grandi miti: Narciso e Dioniso. Il primo perse la vita perché vide solo se stesso, e il secondo perché vide il mondo. Ma nello specchio, cosa si vede esattamente? Noi stessi, il mondo o qualcosa di ancora diverso? Sappiamo tutti che nello specchio non vediamo noi stessi, ma il nostro viso o il nostro corpo. E anche il mondo è ribaltato, quindi non è esattamente il nostro mondo.

La visione tradizionale, ben raccontata dall’autore, è che sullo specchio, o grazie allo specchio, noi vedremo immagini e non il mondo in quanto tale. È una tesi popolare che sembra spiegare l’inversione sinistra-destra. In realtà, qui si nasconde un’insidia. L’inversione non riguarda l’asse sinistra-destra, ma una proprietà più complessa che si chiama chiralità e che si potrebbe spiegare con l’inversione dell’asse di profondità. Si inverte l’ordine del mondo, ma tridimensionalmente. E le immagini sono piatte. Quindi qualcosa non funziona tanto bene e mette in discussione l’esistenza stessa di questa carta velina fenomenica che da Platone in poi, con qualche differenza, il pensiero occidentale ha posto tra il soggetto e il mondo.

Non stupisce che la storia della metafora dello specchio diventi così lo spunto per abbozzare la promessa contenuta nel sottotitolo, ovvero dare i «lineamenti per una storia dell’immagine». A questo proposito Tagliapietra, parlando del primato metafisico della vista, scrive che sarà «l’immagine a fungere da mediatore gnoseologico e ontologico, fra quelle che diventeranno le cose e la loro essenza». Dalle ombre di Platone alla sezione dell’immagine visiva di Brunelleschi, passando attraverso tutte le declinazioni partecipative e intro-estro-missive, qualcosa deve reificare l’atto della visione e portare il mondo a mostrarsi nel soggetto; questo qualcosa prende il nome di immagine ed è la preda dello specchio che ha il potere di duplicarla, rimbalzarla, ingrandirla, ribaltarla e trasmetterla.

E qui però ci scontriamo con il problema metafisico-scientifico della natura dell’immagine, e quindi dello specchio. In sintesi ci scontriamo con un dilemma insanabile. Se l’immagine non fosse oggetto, come potrebbe agire su quell’oggetto che è il nostro corpo? E se fosse oggetto, perché dovrebbe essere meglio delle cose stesse? L’immagine, di cui si fa tanto uso nella cultura visuale di oggi, rimane ontologicamente equivoca e contraddittoria. È troppo facile, come nella filosofia contemporanea, appellarsi all’immagine come l’ipostatizzazione della relazione tra soggetto e oggetto dicendo semplicemente che «l’immagine fa uscire la cosa dalla sua semplice presenza per metterla in presenza di sé stessa. L’immagine, allora, rap-presenta la cosa, la mette davanti a sé». Uscire da se stessi non è affatto facile e non si capisce perché le cose dovrebbero emanare immagini che cose non sono.

Come ricorda Tagliapietra, già in Democrito il problema si poneva chiaramente: come si va dagli atomi agli eidola epicurei? E la nozione di simulacra che dovrebbero andare dai corpi staccarsi dai corpi non migliora le cose come, tra i tanti, osserva Seneca che, nelle Naturales Quaestiones, considera il caso in cui «negli specchi non si vedano le immagini, ma i corpi stessi, osservando che i raggi visivi sono rinviati e di nuovo riflessi su di sé». Immagini, effluvi, specie, eidola e simulacra sono nel punto di confine tra materia e metafisica, prima ancora che tra le cose e i soggetti; dovrebbero risolvere quell’inerzia passiva che condannerebbe le cose all’invisibilità, ma per farlo non possono nascere nella materia. È un gatto che si morde la coda e che oggi, al netto della terminologia neuroinformatica apparentemente così convincente, non trova una risposta più chiara e ontologicamente onesta. Se il mondo giunge al soggetto attraverso l’informazione portata dai raggi luminosi, come è possibile che venga poi ritrasformato in immagini mentali? Ancora una volta il problema è esattamente nei termini posti da Democrito: come si passa dai neuroni alle immagini mentali? E l’informazione che giunge dagli oggetti contiene forse le proprietà (colore, forma, dimensione) che troviamo nell’atto del vedere?

Non ha senso parlare di specchi se non si presuppone l’esistenza delle immagini e viceversa. L’enigma rimane irrisolto. E così lo specchio è una metafora che però non spiega. È una metafora che si lega al suo termine, l’osservatore, unendo due misteri senza risolvere il secondo: che significa vedere? Vedere è clonare, raddoppiare e qui ritorna il miracolo dello specchio che duplica o della copula che riproduce. Come ricorda Tagliapietra, secondo il Platone dell’Alcibiade Maggiore, «basterebbe pensare alle pupille degli occhi come a degli specchi». Gli occhi, in fondo, sono considerati lo specchio dell’anima (e quindi non del mondo), ma se lo specchio non vede?

Lasciando il piano metafisico sono molto rivelatrici le pagine del volume circa il ruolo etico dello specchio a partire dall’episodio di Ostio Quadra, narrato da Seneca, che utilizzava una o più stanze in modo da moltiplicare e ingigantire la vista di amplessi erotici e dei relativi organi sessuali (si torna alla copula) ma anche di mostrare a un vasto pubblico le proprie prestazioni unendo esibizionismo e voyeurismo. Quadra, per nulla imbarazzato da quest’uso della tecnologia, è chiaramente un precursore antico di YouPorn e di Internet che sono, ai nostri giorni, lo specchio della nostra società ed esistenza. Se i nostri giorni non si riflettono in mille immagini che devono essere viste dal più grande numero di persone, sentiamo di non averli vissuti, come se quella inerzia oscura della materia non manifesta ci raggiungesse. Vivere è apparire. Se non siamo visti, siamo pietrificati e scompariamo nel buio di un’esistenza cieca.

Lo specchio, metafora della vista, è però cieco e, anzi, rende impotente lo sguardo di Medusa che, se riflesso dallo scudo di Teseo, non può più togliere la vita. Come scrive Tagliapietra, «lo specchio di Medusa rimane dunque lontano da quella frattura netta che si delinea con Platone, dove l’opposizione fra essere e apparire, ancora una volta giocata, come vedremo, sul riferimento metaforico dello specchio, conferirà all’immagine uno statuto fenomenico proprio che implica come contropartita l’estromissione dell’immagine dall’ambito di ciò che è veramente reale». Lo specchio porta l’apparire nel mondo, senza però dare sostanza alle immagini che restano appese nel discorso come un corollario di qualcosa che non può che essere invisibile. E che cosa vuol dire apparire, se non si esiste? Lo specchio non può avere il potere di far esistere la pura apparenza, ma nemmeno, come si notava sopra, di clonare e duplicare la realtà.

L’atto di moltiplicazione della realtà o anche semplicemente quello di duplicazione (i due Cratili, insomma) non può avvenire letteralmente almeno in una metafisica tradizionale composta di enti (o in senso moderno di cose). Di fronte a questo limite, lo specchio moltiplica a condizione di accettare che il termine ripetuto non abbia alcuna sostanza. Come quando si moltiplica uno zero, non si lascia mai il punto di origine. Ma in questo caso, anche il soggetto non sarebbe nulla, e l’atto di vedere si ridurrebbe a reificare un vuoto e qui Tagliapietra cita un inquietante racconto dello scrittore decadente Jean Lorrain, I buchi della maschera, nel quale si scopre che, dietro le maschere dei partecipanti a una festa, non vi è altro che il nulla.

Il libro è lungo e ricco, ma l’argomento sembra avere una inesauribile capacità di rigenerarsi tale che nessun autore, nessuna opera, nessuna analisi, riesce a comprenderlo e fissarlo in modo soddisfacente. È persino impossibile parlare di specchi senza usare i tanti termini – le tante metafore – che dalla catottrica sono scivolate nel linguaggio accademico e quotidiano per plasmare la comprensione di noi stessi. Una tendenza ben illustrata dallo specchio che in una scena del primo The Matrix (1998) delle sorelle Wachowski viene usato come metafora visiva del passaggio tra il mondo dello specchio e il mondo della realtà: specchio che ingloba il protagonista Neo e che, entrando nel suo corpo, frantuma la separazione tra interno ed esterno, tra interiorità ed esteriorità, tra mente e mondo; metafora di metafore in un gioco infinito di specchi dove Platone, Lewis Carroll, Cartesio, Velázquez e Intelligenza Artificiale si riflettono senza trovare un punto terminale. Tagliapietra affronta questa sfida con coraggio e con grandi risorse, ma in fondo, ancora una volta, lo specchio si è sottratto, come suo solito, allo sguardo.

Riferimenti bibliografici
J.L. Borges, Finzioni, tr. it., Einaudi, Torino 1982.
Platone, Alcibiade primo. Sulla natura dell’uomo. Dialoghi socratici, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2015
Seneca, a cura di R. Mugellesi, Questioni Naturali, Rizzoli, Milano 2004.

Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine, Donzelli editore, Roma 2023.

Tags     Matrix, specchio
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