Il bisogno di dare alle storie del cinema un carattere narrativo di rigore cronologico ci porta a vedere in Roma di Fellini (1972) il testamento artistico di Anna Magnani. Sebbene il formidabile cameo role funzioni come epilogo di ciò che l’attrice aveva simboleggiato tra i cineasti del suo tempo, l’ultima stagione del percorso creativo di Anna Magnani (1908-1973) si è svolta piuttosto in televisione. Ci riferiamo alla spesso dimenticata miniserie fiction Tre Donne (1971), prodotta dalla RAI e nella quale l’attrice interpretava, attraverso diverse figure femminili di lunga reminiscenza magnaniana, una piccola storia del ventesimo secolo in Italia. Allontanata da anni dal cinema, e raggiungendo per la prima volta il suo pubblico nell’intimità del piccolo schermo, Magnani, che come disse a Fellini non amava essere raccontata dagli altri, trovò nell’inatteso palcoscenico televisivo un’ultima opportunità di raccontare sé stessa.

Le caratteristiche del formato hanno probabilmente consentito all’attrice di recuperare un’indagine della performance che il cinema non le offriva più, e tutto quello che accade nei vari episodi della serie, diretta da Alfredo Giannetti e in parte promossa da Silvia d’Amico – nipote del maestro di teatro di Anna e figlia della sceneggiatrice e amica Suso Cecchi – ci rimanda all’universo Magnani.

Nella commedia drammatica La sciantosa l’attrice interpreta Flora Torres, una diva del teatro in declino ai tempi della Prima guerra mondiale. Dalle risonanze autobiografiche della Magnani di quest’epoca, il film ritratta il tramonto di un’attrice non più tanto ricordata da un pubblico che l’aveva consacrata nei decenni precedenti. Nel melodramma 1943: un incontro, Iolanda è una lavoratrice nubile che incontra sotto le bombe della Roma occupata un tenero primo amore di maturità. Una piccola avventura che rivisita il luogo conflittuale che i rapporti di genere hanno sempre avuto nella poetica magnaniana, e ci ricorda che il partner maschile – spesso in fuori campo – non è stato mai la soluzione alla solitudine delle sue eroine.

Finalmente L’automobile si affaccia sulla modernità degli anni settanta e offre nel simpaticissimo ritratto di una prostituta andata in pensione che sogna come comprare una macchina per viaggiare, i desideri di progresso di Mamma Roma, questa volta divenuti realtà. Il progetto viene coronato da Correva l’anno di grazia 1870, dove troviamo nell’avventura di Teresa Parenti, una popolana coraggiosa, la nostalgia per Roma città aperta, il ricordo del lutto per l’ingiusta morte della valorosa Pina, personaggio fondazionale della sua politica di attrice. Destinato alle sale cinematografiche, 1870 è stato mandato in onda la stessa notte della morte di Anna Magnani, il 26 settembre 1973, a mo’ di omaggio, trasformando così Tre Donne in una sorta di inatteso sipario finale sulla sua vita e carriera.

Nonostante il carattere inevitabilmente testamentario dell’insieme, è interessante osservare il progetto nel suo contesto. In linea di massima, Flora, Iolanda, Anna e Teresa rappresentano le macro-figure che avevano costituito il ventaglio figurativo della Magnani – la donna emancipata, la madre, l’attrice e la prostituta – e insieme esprimono quello che era stato il tema essenziale della sua poetica: l’esperienza della Storia da parte della donna o, per dirla con le parole di Anna Garofalo, la realtà dell’italiana in Italia.

Sebbene i grandi momenti di Tre Donne appartengano alle scene epiche di momenti storici o alla composizione dei grandi motivi tragici attorno al senso di giustizia della Magnani, i momenti che compongono la complicità tra attrice e pubblico emergono nelle scene più irrilevanti. La drammaturgia si compone intorno alla sola presenza che l’attrice, che alla fine della sua vita aveva acquisito una patina tragica e la solidità di un personaggio monumentale, dà a idee e azioni come il silenzio, l’insonnia, l’attività monotona in cucina, l’austerità della quotidianità, il monologo interiore, il dubbio, le riflessioni a spasso per Roma, momenti banali che nell’insieme compongono l’importanza drammaturgica dell’intimità.

Il ritmo sereno, la raffinatezza delle sfumature, la drammaticità e la solidità delle interpretazioni televisive, del tutto sottratte all’eccesso e all’instabilità di alcune delle ultime apparizioni cinematografiche degli anni sessanta, indicano condizioni di produzione certamente privilegiate, dove quello che conta non è la qualità narrativa o estetica dei film, ma la sua capacità di testimoniare i dettagli di pregio della recitazione. Il tipo di drammaturgia, la narrativa dei personaggi e l’approccio ai grandi temi che avevano modellato la politica magnaniana – come la lotta per l’autonomia, l’identità, l’amore e la solitudine della donna nella società moderna – incorniciano la proposta di Tre Donne intorno alla maschera magnaniana, nella ricerca e ritrovamento di un’attualità divistica che aveva perso il suo posto nel cinema. La miniserie finisce per essere non tanto la narrazione di un’epica storica della nazione quanto un micro-manifesto intorno allo stile di Anna Magnani: una messa in scena dell’esperienza della Storia attraverso la performance quotidiana del soggetto femminile.

Malgrado la considerazione della televisione come genere minore rispetto al cinema, le opere televisive della maturità di altri contemporanei di Magnani come Roberto Rossellini o Jean Renoir suggeriscono la fecondità del medium come terreno alternativo per l’espansione di progetti che non trovavano più senso nel cinema. Attraverso le varie puntate, Magnani rappresenta un ritorno ai luoghi, ai gesti, ai personaggi e alle idee essenziali che avevano strutturato la sua opera, formando intorno al gesto consapevole e complice un’ultima dimostrazione di forza che è chiaramente retrospettiva.

Il risultato, voluto o no, ci riporta un gradevole affresco autoreferenziale, un simpatico roman à clef in forma di ciclo cinematografico, dove l’assiduo spettatore incontra una serie di personaggi femminili, gesti, momenti e motivi tematici di chiara memoria magnaniana, destinati a preservare la complicità dell’artista con il suo tempo.

La televisione come destino accogliente alla creazione delle donne, e in concreto come palcoscenico della maturità creativa delle attrici, non era nuova nei primi anni settanta. Nella celebrazione dell’autoritratto, tanto involontario quanto inevitabile, di un’attrice che incontra il suo passato artistico e personale, Tre Donne testimonia l’azione divistica di un’artista che, in piena saggezza creativa, riflette intorno a quello che è stato il suo corpus figurativo. In un certo senso, troviamo in questo ultimo progetto un’aura del one-woman-show nato dalla stessa migrazione delle artiste dello show business dal cinema alla TV, dagli anni cinquanta ad oggi, da Lucille Ball e Carol Burnett a Phoebe Waller-Bridge, Jane Fonda e Lily Tomlin.

L’attrice dimenticata da un cinema che la volle simbolo e mito di un’epoca in scadenza, trova nella TV “una stanza tutta per sé”. Uno spazio dove raccontare in complicità con un pubblico popolare che la ricorda con affetto il presente di un percorso divistico. Come era avvenuto nei suoi esordi teatrali nella rivista, Magnani impregna l’opera della propria presenza, e curiosamente è la TV a restituire di nuovo all’attrice quell’autorevolezza creativa e quel protagonismo che, nel transito degli attori popolari del teatro del Novecento al cinema del dopoguerra, sarebbe stata eclissata dalla presenza del regista moderno.

L’ultima Magnani sembra essere la più carica di energia di tutta la sua traiettoria di vita, la più certa nell’esprimere in vita e opera un discorso sull’empowerment femminile che, – ora sì -, accompagna la seconda ondata del femminismo in Europa. In una lettera dell’epoca all’amico Tennessee Williams, l’attrice scriveva: «È ora che io faccia vedere quante, e quante donne ci sono in me» (Vaccarella 2005, p. 172).

Nella prima retrospettiva importante sul mito di Magnani dopo la scomparsa dell’attrice,  Patrizia Pistagnesi definì l’importanza del lavoro di Anna nella capacità di esprimere l’esperienza storica della donna lavoratrice in confluenza con la solitudine dell’artista.

In quest’ultima confluenza di attrice e personaggio che troviamo in Tre donne, Magnani sembra insistere sulla funzione essenziale dell’interprete: discutere le sfide antropologiche di un’epoca, sulla base di un’opera capace di riflettere la propria intelligenza sui processi storici e la capacità di esprimerli attraverso il corpo. La capacità suggestiva del palcoscenico televisivo sembra dire che l’innovazione di Anna Magnani era saper costruire un linguaggio essenzialmente contemporaneo. Un linguaggio che anticipa le inquietudini del suo tempo e che può raggiungere qualsiasi spettatore o spettatrice, indipendentemente dall’epoca e dal medium che ospita la sua performance. Tre donne è il fuori campo della porta che Magnani ha chiuso davanti alla macchina da presa di Fellini: l’off the record del mito tramutato in atelier dell’attrice. Una discreta e ricca mise en scène di Magnani raccontata da Magnani, in situ ed in esclusiva per un pubblico che, forse perché l’ha capita meglio rispetto alle industrie culturali del suo tempo, seppe apprezzare il valore del suo ultimo saluto.

Riferimenti bibliografici
N. Brenez, Retos disciplinares, políticos y ontológicos del gesto: poética del actor, in Poéticas del gesto en el cine europeo contemporáneo, a cura di F. Benavente e G. Salvadó, Intermedio, Barcelona 2013, pp. 287-312.
A. Garofalo, L’italiana in Italia, Laertes, Roma 1956.
M. Hochkofler, Anna Magnani, Gremese, Roma 2005.
C. Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Marsilio, Roma 2007.
P. Pistagnesi, Anna Magnani, Fabbri, Milano 1988.
C. e L. Vaccarella, Anna Magnani. La mia corrispondenza americana, Edizioni Interculturali, Roma 2005.

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