Che cosa racconta, oggi, il cinema italiano? E, soprattutto, come si confronta con la realtà del Paese, ammesso che lo faccia – lo voglia e lo sappia fare? L’etichetta di “cinema del reale” è sufficientemente ambigua da aver suscitato poche proteste, ma come navigatore serve a poco, perché potremmo trovarci più o meno dovunque – Romania, Cile, Francia… – e perché identifica un po’ troppe cose e, in particolare, una terra di mezzo popolata di generi e forme e pratiche che rimettono in gioco non soltanto il secondo termine (opaco per definizione) ma, talvolta, anche il primo (basterebbe pensare all’opera di Michelangelo Frammartino).
L’aspetto più interessante della definizione si rivela passando dal sostantivo all’aggettivo: lo si può declinare infatti, più docilmente, verso realismo, così da porre subito un’ipotesi genealogica (aggiungendo magari, dopo il secondo di Barilli, un terzo “neo”), ma anche verso “realitismo”, con o senza “y” (come nella versione di Ferraris), versione che, tra l’altro, ha il pregio di suggerire in modo più acuto che il problema, oggi, non è tanto o soltanto quello di riallineare realtà e rappresentazione, ma, piuttosto, quello di ridefinire, se possibile, i campi di pertinenza dei due termini. Problema che, non a caso, ha occupato negli ultimi anni la filosofia italiana: basterebbe ricordare, nel 2012, lo scontro a distanza tra il manifesto di Maurizio Ferraris e il contro-manifesto di Gianni Vattimo, che in Della realtà fa i conti sia col (proprio) pensiero debole anni ottanta, sia con la forza, se non proprio l’autoritarismo, dei richiami e dei ritorni contemporanei alla realtà e anzi ai fatti (dichiarandosi, ancora e sempre, dalla parte dell’ermeneutica, solo un po’ alleggerita).
In fondo, semplificando un po’, le posizioni antitetiche di Ferraris e Vattimo fanno da sponda a quella duplice via di fuga delle estensioni attributive legate all’idea di “cinema del reale”, col vantaggio supplementare – trattandosi di filosofi, e di filosofi cresciuti col postmoderno – di evocare immediatamente la questione preliminare del riconoscimento dei termini in gioco e della loro interpretazione (inevitabile, anche a voler stare saldamente dalla parte dell’ontologia e dell’inemendabile). Allora, la domanda più promettente potrebbe essere: di quale realismo parla, oggi, il cinema del reale, sotto la cui insegna si tende a radunare la migliore produzione italiana? Il tema, insomma, non è capire se e come e quanto il cinema riesca a essere “realista”, con gli effetti di realtà troppo spesso confusi per rappresentazioni effettive della realtà; piuttosto, si tratta di chiarire quale rapporto preliminare esso stabilisce con i regimi della rappresentazione e l’esperienza della realtà, o forse, più semplicemente, quanto è disposto a credere nella possibilità del cinema di avviare un discorso non puramente mimetico né favolistico sulla realtà.
La genealogia si chiarisce di conseguenza, in una formula che potrebbe suonare così: se il cinema italiano, quello della “scuola della liberazione”, è nato da una specie di fame, per colmare un vuoto e correggere una menzogna (l’immagine come necessità e antidoto), quello di oggi non può nascere se non come reazione a una specie di bulimia, come reazione a un (troppo) pieno che sembrerebbe prescrivere qualche tipo di astinenza più o meno rumorosa, come quella praticata da registi e fotografi e pittori della prima generazione postmoderna. Con, in più, l’aggravante contemporanea degli allargamenti di campo (un’altra forma di dismisura), che finisce per rovesciare sul cinema stesso un altro ordine di questioni – quelle, per sintetizzare, che riguardano il “reale” del cinema, le sue possibilità realiste e le sue responsabilità realististe sullo sfondo della visualità di oggi. E nel caso del cinema italiano si tratta di un problema essenziale, perché strettamente identitario: il cinema italiano “della liberazione” nasce, infatti, per dare forma all’esperienza di un Paese, non per trascenderla o sostituirla o raddoppiarla (che è invece la forza del cinema statunitense, sempre e comunque, fin dalle origini, iperreale). Un ordine di problemi che finisce per introdurre come sempre più urgente anche la questione del ruolo del cinema in quanto coscienza e testimonianza – in breve, la questione della sua realtà di fatto storico, sociale e culturale.
Date queste premesse, non sorprende trovare in molto cinema italiano contemporaneo qualcosa di simile a una “guerra delle immagini”: immagini in guerra tra di loro (anche per ricordare che non tutte le immagini sono la stessa cosa, che valgono e funzionano allo stesso modo), oppure lanciate a rompere l’ordine dei rapporti (che vorrebbero le immagini, oggi, o sempre troppo vicine o sempre troppo lontane dalla realtà, e quindi indifferenti, nel primo caso, false nel secondo), o, ancora, immagini schierate contro un’idea ingenua di realismo (figlia della trasparenza delle rimediazioni contemporanee) o, infine, impegnate in un’autointerrogazione spesso brutale (la domanda non può più essere “che cos’è il cinema?”, ma “che cos’è un’immagine cinematografica?”).
Di questa temperie estetica Le meraviglie (2014) e Lazzaro felice (2018) di Alice Rohrwacher sono un esempio perfetto, poco importa se eccessivamente programmatico, e il fatto che entrambi – e in particolare il secondo – sfiorino neppure troppo da lontano il regime del fantastico, suggerisce immediatamente la posta in gioco: riconsegnare al cinema un potere mimetico e, insieme, allucinatorio (che lo accompagna del resto fin dalle origini), il potere di aggirare la semplice ricognizione “sociologica” per scavare il reale (questa volta in senso “pieno”) nella sua imprevedibilità e indeterminatezza; il potere di fare dell’immagine un territorio di confronto rischioso tra visibile e invisibile, tra finitezza e metamorfosi, fino al punto di riabilitare e aggiornare il tema della paura delle immagini (particolarmente ne Le meraviglie) e, più in generale, della loro pericolosità.
Di qui, vale la pena segnalare, ha origine anche l’interesse diffuso di molto cinema recente per i personaggi marginali, ma nel senso che essi «si collocano ai bordi della vita sociale, nel punto in cui tutto può precipitare o rinascere in forma nuova»: Lazzaro e Dogman, certo, ma come non ricordare il personaggio forse più originale e marginale di tutti, l’Enzo Ceccotti di Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2016), loser di periferia e supereroe, protagonista di una specie di “Miracolo a Roma” in cui la tradizione neorealista incontra l’animazione giapponese, contaminando in modo del tutto inatteso (e insieme sottilissimo) due regimi dell’immagine e dell’immaginazione del tutto estranei; ma non passa del resto anche da questa specie di impurità – letteralmente rappresentata dalle acque sporche del Tevere in cui “rinasce” il personaggio principale – la continuità e, insieme, il rinnovamento di una certa tradizione del cinema italiano?
Cinefilia impura, metamorfosi e ricognizioni di personaggi ai margini (ma la marginalità, questa volta, è quella dell’eccezionalità) alimentano, da sempre, anche il cinema di Paolo Sorrentino, nel quale la posta in gioco si precisa – l’eco “neomoderna” è qui più forte – come indagine sul potere del cinema di sollevare la rappresentazione della realtà dai codici della verosimiglianza, ma anche (e di conseguenza) come ricognizione del commercio contemporaneo tra reale e immaginario. Era dunque inevitabile che, prima o poi, Sorrentino incrociasse l’archivio berlusconiano, la sua estensione e la sua desiderabilità (non a caso, a legare e, insieme, a separare la prima e la seconda parte del film è lo sguardo lungo e affamato di Sergio Morra, che invoca letteralmente il controcampo rappresentato da Berlusconi); e se Loro (2018) appare per certi versi una battaglia (culturale, prima ancora che visuale) perduta – e perduta esattamente in quanto guerra di immagini –, nondimeno il dittico sorrentiniano contribuisce a porre una questione cruciale come quella dell’autonomia e dell’indipendenza del cinema, e anzi della sua necessità (e difesa, pensando alla teoria e alla critica) in quanto regime differente dell’immagine nel territorio magmatico del visivo contemporaneo.
Questione, quest’ultima, alla quale Matteo Garrone ha offerto, in questi anni, le risposte più centrate e decisive, non da ultimo attraverso il confronto serrato con la cronaca e la letteratura (L’imbalsamatore, Primo amore, Gomorra, Reality, Dogman). Fino ad approdare al film più importante – e infatti alieno – del “nuovo” cinema italiano, Il racconto dei racconti (2015), in cui Garrone sposta la sua poetica “realista” da un’altra parte, senza alcuna paura dell’ignoto, per continuare, con altri mezzi, la sua personalissima riflessione sulla realtà di oggi, le sue logiche e i suoi attori (ma, anche, la sua indagine su quella doppia anima, traccia e allucinazione, del cinema).
Lo fa, in particolare, portando in primo piano i meccanismi fondamentali del “raccontare storie”, vale a dire la trasformazione e il movimento, e interpretando il capriccioso del Barocco non come esausta prova di forza nei confronti della bellezza, ma come emblema stesso della vita: mutare pelle (come fa una delle due vecchiette), moscheggiare (per dirla con Basile) il destino (come prova a fare la regina di Longtrellis), salire e scendere (Viola e il suo orco), saltare e nascondersi (la pulce e il re di Highhills), danzare e inseguire (i teatranti, gli orsi, gli innamorati a vita). Un film, Il racconto dei racconti, che contiene anche la metafora più bella e potente del cinema di oggi (italiano, ma non solo): è racchiusa nell’ultimo movimento, quello delle teste coronate che, felicemente riunite, si alzano incerte per seguire, in silenzio, il cammino di un funambolo che dà spettacolo, pericolosamente sospeso nel vuoto, su un filo infuocato.
Riferimenti bibliografici
M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari-Roma 2014.
G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012.