Qual è il luogo del pensiero? Domanda apparentemente astrusa: non c’è un luogo specifico, tutti noi pensiamo costantemente e in ogni circostanza, anche se forse la riflessione predilige spazi chiusi, confortevoli, come una biblioteca, uno studio, o ancora postazioni comode come la scrivania, la poltrona (il divano?). In questi luoghi comuni, il pensiero diventa una specie di arredamento per interni, meglio ancora se chiusi e ben delimitati. D’altra parte, si parla abitualmente del pensiero come di qualcosa che accade nella nostra mente (o peggio, nel cervello), che si situa in un preciso ambito, disciplina, che a sua volta viene coltivata all’interno di istituzioni come scuole, università, dipartimenti. Il pensiero viene concepito come scavo, sprofondamento in se stessi, eventualmente come vettore che parte da un soggetto e si dirige verso un oggetto.
Il libro di Daniela Angelucci imposta una riflessione affatto diversa, percorrendo l’ipotesi opposta secondo cui il pensiero nasce da un contatto con il Fuori, da un incontro destabilizzante che mette in moto un processo avventuroso, non deciso in partenza, pericoloso ma urgente. In quest’ottica, la filosofia non è quel tipo di diligente meditazione che spesso la tradizione ci ha indotto a credere, ma la risposta a un evento, a un contatto con forze reali e potenzialmente disgreganti. Scegliendo Deleuze e Guattari come “intercessori” del proprio pensiero, l’autrice ci mostra un modo di concepire la filosofia come «instaurazione di un piano d’immanenza» e «taglio sul caos attuato dal piano del logos» (Angelucci 2023, p. 25), ovvero come un’attività capace di creare concetti setacciando le forze vitali che premono dall’esterno, senza annullarle o sterilizzarle ma anche senza caderne del tutto preda.
Questa idea della filosofia come incontro e contatto con una dimensione extra-filosofica imprevedibile e irruente rivela una immediata solidarietà tra pensiero e sensibilità che ci consegna un’immagine dell’Estetica come filosofia prima. È infatti l’esperienza del contatto con il Fuori a innescare il pensiero, diventandone condizione di possibilità e presentando un carattere traumatico «di necessità paradossale, ferrea ma senza fondamento, raggiunto soltanto grazie agli incontri contingenti e alla involontarietà del pensiero» (ivi, p. 55).
La filosofia nasce così da un «incontro violento con il Fuori» (ivi, p. 74) che viene presentato attraverso un recupero della nozione kantiana di sublime e attraverso il ripensamento di questo concetto nella filosofia francese del Novecento. Ben al di là dei limiti della riflessione sull’arte, l’Estetica è qui intesa come riflessione su un’esperienza «che ci permette di sperimentare, condensati in un lasso di tempo, alcuni tratti tipici del nostro stare al mondo» (ivi, p. 83). Attingendo ai concetti propri della psicoanalisi, questa «situazione antropologica fondamentale» chiama in causa un modo di intendere la pulsione come «esito dell’incontro con l’altro» (ivi, p. 87), dunque come qualcosa di nettamente differente dall’istinto, innato e adattato al suo oggetto. La pulsione, propria invece dell’essere umano, è il contraccolpo di un incontro enigmatico tra adulto e bambino, spinta non endogena ma generata dall’esterno che introduce il sessuale tipicamente umano nel mondo del piccolo.
È a questo punto che la riflessione di Angelucci reintroduce il tema dell’arte attraverso un radicale ripensamento della nozione di sublimazione. Se abitualmente questa viene concepita, a partire da Freud, come deviazione della pulsione sessuale verso un’altra meta, socialmente accettabile e culturalmente o artisticamente connotata, l’autrice propone invece un’idea di sublimazione come «possibilità di un contatto con ciò che altrimenti è inattingibile o irrappresentabile» (ivi, p. 94). Attraverso la nozione lacaniana di sinthomo («“una guarigione” che non cancella ciò da cui si guarisce», ivi, p. 95), la sublimazione diventa il modo non di sbarazzarsi della pulsione ma di «incarnar[la], [di] trovare un contatto non distruttivo, ma sicuramente faticoso, per non dire violento» (ivi, p. 96).
L’arte diventa così il campo in cui, con maggior fortuna, è possibile tentare questa esperienza di contatto non distruttivo con le forze vitali che provengono dall’esterno, dal reale. Ciò implica un ripensamento della nozione tradizionale di forma che, riletta attraverso il concetto ancora una volta deleuziano di ritornello, non indica tanto la chiusura di un “territorio” ma la possibilità di una indeterminata apertura di nuove connessioni, come accade per esempio in alcune particolari tipologie di immagine fotografica (come le immagini lacunose e “non-tutte” su cui l’autrice riflette a partire da Barthes, Didi-Huberman e Lacan), cinematografica (l’immagine-cristallo del cinema moderno secondo Deleuze), o in alcuni usi letterari del linguaggio, strappato alla sua mera funzione comunicativa o simbolica e declinato in direzione di una “letteratura minore ”(come insegna il Kafka di Deleuze).
Le pratiche artistiche diventano in questo modo un luogo privilegiato – ma non esclusivo – in cui si assiste alla nascita di un pensiero prodotto da un incontro con il reale. E la stessa concezione dell’esperienza estetica ne risulta modificata: non più, tradizionalmente, esperienza di un soggetto rivolto a un oggetto, ma (con Baudrillard) gioco di seduzione, di collusione tra soggetto e oggetto, o ancora (con un’inaspettata alleanza tra Deleuze e Lacan) depotenziamento del soggetto che viene “catturato” dall’oggetto, nell’oggetto. Quello che abitualmente viene considerato l’agente scopre così la propria passività costitutiva in uno spossessamento di sé che non deve cercare necessariamente riparo in forme chiuse, opere codificate o istituzioni stabili ma che lo apre e lo rende disponibile a nuove forme di incontro con gli altri.
È in questa idea di «concatenamento» come «incontro tra termini eterogenei» (ivi, p. 180) che le conclusioni dell’autrice si sporgono in direzione di un esito politico della riflessione innescata dal contatto con il Fuori. Il pensiero che trae origine dall’incontro con l’esteriorità del reale è un pensiero che mette in atto uno spossessamento del soggetto; le pratiche artistiche – dalla fotografia al cinema, fino alla letteratura e a una pratica indecidibile (performance o gesto quotidiano?) come il camminare – rivelano un divenire-minore, una linea di fuga che diventa movimento d’uscita, estasi. Partito dall’incontro con il Fuori, il pensiero vi fa ritorno:
[…] L’inizio di un pensiero filosofico non convenzionale nasce soltanto nell’incontro con le urgenze che arrivano da ciò che sta “là fuori”, nel mondo e fuori dalla filosofia, [ma] si può anche dire, simmetricamente, che ogni attività, artistica o meno, quando si spinge alle sue conseguenze estreme abbandona il proprio territorio limitato, e arriva a produrre filosofia […] perché [essa]è costitutivamente connessa con il fuori, da cui nasce e a cui ritorna, in cui continua a circolare, funzionando in fondo come una instancabile deterritorializzazione di tutto il pensiero, qualsiasi sia il territorio in cui si produce (ivi, p. 192).
Il libro mette in pratica il metodo dell’incontro che contribuisce a delineare: autori, pratiche artistiche, opere, concetti sono mobilitati a mano a mano che il pensiero ne sente l’urgenza, confrontandosi con un tema per sua natura sfuggente e inoggettivabile come il Fuori, che compare anche nelle vesti del Reale lacaniano, del sublime, del caos. Al di sotto delle singole figure del pensiero pare però agitarsi una questione ricorrente, espressa in realtà fin dalle prime battute:
La questione – scrive Angelucci – è come fare ad intercettare questo campo di forze senza dissolversi, senza cedere appunto a una passione “di abolizione”. È una domanda filosofica ma anche esistenziale, politica, etica, perché tutto nella nostra contemporaneità, dal controllo sociale in aumento alle giustificate ma anche indotte paure individuali e collettive, sembra invitarci a non uscire da ciò che è preordinato, organizzato, già pensato, che si tratti della nostra casa, di una certa idea di coppia o di famiglia, di percorso lavorativo, politico, relazionale (ivi, p. 29).
In altri termini, la questione è come garantire un contatto con questo esterno vitale e però potenzialmente devastante; come ammettere un’apertura del pensiero che sia in grado di evitare la chiusura in formule rigide ma anche l’esplosione di idee deliranti; come realizzare pratiche artistiche che non si riducano al perimetro asfittico di un’opera convenzionalmente intesa ma che non si disgreghino in mille rivoli incapaci di alcuna tenuta; come concepire un modo di stare insieme agli altri che non si sclerotizzi in formazioni granitiche ma che non sia condannato a una rapida dissoluzione.
Il Fuori da cui questo pensiero è messo in moto ha a che fare senz’altro con le emergenze contemporanee – pandemica, ambientale, socio-economica, culturale – senza però potersi ridurre ad esse. La «creazione di concetti» qui proposta non indica una risposta univoca al quesito posto dall’autrice ma invita il lettore a cercare il proprio «punto di disorientamento» (ivi, p. 182), a realizzare i propri concatenamenti (agencements), a trovare in definitiva il proprio passo. Solamente in questo modo filosofia, arte e politica possono sperare di non chiudersi nel recinto che, nei loro rispettivi ambiti, hanno contribuito a costruire, ma possono rendersi disponibili a incontrare nuovamente le forze vitali da cui traggono origine e che le sospingono. Verso fuori.
Daniela Angelucci, Là fuori. La filosofia e il reale, Ombre Corte, Verona 2023.