Sono io che guardo, e il mondo se ne sta lì in attesa di essere guardato da me. Lo sguardo è sovrano, cioè è lo sguardo – ed io che coincido con quello stesso sguardo – che decido che cosa guardare, e perché e quando. Il mondo è a disposizione del mio sguardo. Il mondo, propriamente, non è altro che questa infinita e paziente disponibilità a farsi guardare da me. Perché il mondo è l’attesa di questo sguardo che lo libererà dalla sua oscurità. Questo significa guardare, dominare il mondo con il proprio sguardo. C’è un soggetto, allora, e c’è un oggetto, c’è chi agisce e chi non può fare altro che subire l’azione del primo, essere guardato.
Questa potenza dello sguardo sembra trovare la sua affermazione massima nelle fotografie, dove il nostro sguardo sovrano sul mondo si fissa in una immagine. Nella fotografia vediamo il nostro stesso sguardo sul mondo. Vediamo l’atto del vedere, vediamo la decisione di vedere una certa porzione di mondo. Vediamo il mondo che diventa un oggetto del nostro sguardo. Ma poi succede, come nella storia che apre il libro di Katja Petrowskaja (La foto mi guardava, Adelphi, 2024) che la foto, appunto, «mi guardava» (p. 13). Non tanto il soggetto della foto, in questo il volto di un minatore del Donbass che fuma una sigaretta, quanto proprio la foto, improvvisamente dotata della capacità di vedere e non solo di quella, scontata, di essere vista. In realtà subito dopo Katja Petrowskaja sembra tornare al modo consueto di considerare le fotografie: «Quella vicinanza mi ipnotizzava, ne ero addirittura spaventata. Non sapevo nemmeno dove si trovasse Krasnoarmijs’k, eppure quell’uomo era lì davanti a me, sin troppo vicino, e mi soffiava in faccia il fumo della sua sigaretta. Attendevo che il fumo si diradasse per scoprire se l’uomo stesse sorridendo oppure sghignazzando. Niente da fare, lui guardava attraverso il fumo della sigaretta e restava lì, come avvolto in un mistero» (ibidem). In realtà il mistero non è, propriamente, nello sguardo del minatore, che in fondo non è che uno sguardo umano, quanto il mistero dello sguardo – come aveva scritto correttamente all’inizio del pezzo – della stessa fotografia. Bisogna prendere alla lettera quella foto che “guardava”.
Dimentichiamo sempre, in realtà, che la fotografia non coincide con il soggetto fotografato, e questa dimenticanza ci porta a non vedere il fatto elementare che una foto, appunto, è un oggetto autonomo, esiste cioè di per sé oltre che essere un segno di qualcos’altro. È questo oggetto che, misteriosamente, ci guarda, non il soggetto della foto. Per questo, come scrive in un altro passaggio Petrowskaja, «la mia convinzione [è] che osservare sia un modo di porsi» (ivi, p. 253), cioè un modo di esporsi allo sguardo del mondo. Ecco perché, tornando alla foto del minatore del Donbass, «da quella foto mi guardava la mia stessa cecità, la mia stessa impotenza» (ivi, p. 14). Il mondo improvvisamente, si rovescia, il soggetto diventa oggetto, l’oggetto diventa soggetto. Nella foto, allora, vediamo la nostra cecità non solo perché non sappiamo nulla, in realtà, del soggetto della foto (chi è il minatore del Donbass? Quali sono i suoi sogni, le sue paure, le sue speranze?), ma soprattutto non sappiamo nulla – noi siamo, in fondo, questa stessa ignoranza – del mondo che crediamo di osservare, e di regolare con il nostro presuntuoso sguardo. Non vediamo, appunto, la nostra cecità, una cecità che ci impedisce di accorgerci che siamo noi, in verità, ad essere guardati dal mondo, non il contrario.
E così, nel capitolo Guardare ed essere guardati, commentando una foto del muro di Berlino dell’estate del 1990 – presa una delle vecchie torrette di guardia – quando ormai il muro di fatto non esisteva più, Petrowskaja si chiede:
Il fotografo è nella condizione di sapere esattamente che cosa vede? Da dove vengono, e dove sono dirette le persone intente al gioco? E quelle del campeggio? Sono forse turisti arrivati a Berlino da tutta la Germania? Oppure soltanto dei simpatici vicini? […] Il fotografo aveva una veduta d’insieme, ma non era nella posizione di chi può interpretare, e proprio questo era il segno dei tempi nuovi: si guardava, ma non si ispezionava più, non si deteneva più il controllo (ivi, p. 178).
In realtà non solo l’anonimo fotografo del muro di Berlino (una foto probabilmente scattata pochi mesi prima della riunificazione con la Germania Ovest), non «deteneva più il controllo», ma guardare significa, in realtà, il contrario di controllare il visibile, perché per vedere occorre a propria volta rendersi visibili, esporsi appunto allo sguardo del mondo. Vedere significa farsi vedere.

Come succede in questa fotografia, scattata dalla stessa Petrowskaja, mentre legge sdraiata su un prato, e si accorge all’improvviso la luce del sole se n’è andata, perché una nuvola solitaria e graziosa si frappone fra lei e il cielo illuminato:
Scattai la mia foto dalla zona d’ombra. La nuvola mi mandò un sorriso innocente e sdentato, io le risposi con un riflesso dalla sua ombra. L’avevo solo fotografata, e tuttavia ero felice, come fossi stata io a crearla. Oppure era come se avessi fatto una "telefonata celeste", perché l’avevo fotografata con il telefono? Ero l’unica a tenere lo sguardo fisso sulla nuvola e stavo in piedi per via dell'ombra fredda con cui mi investiva allo scopo di farmi alzare – e io in effetti mi ero tirata su, tanto più che a me vengono subito i brividi. Che le nuvole esistano solo per chi ne ha bisogno? Quella nuvola suscitava preoccupazioni, ma solo per risolverle tutte (ivi, pp. 212-213).
In effetti è la nuvola che osserva dall’alto Katja Petrowskaja, che se ne stava assorta sul prato a leggere un libro. E perché si accorgesse della sua presenza l’ha privata per qualche istante dal calore dei raggi del sole, e così finalmente ha alzato lo sguardo dalle pagine del libro. Perché, per vedere il mondo, bisogna rinunciare alla presunzione sovrana di essere solo noi umani a poter guardare. Solo quando ci rendiamo visibili, solo allora il mondo si mostra:
Non bisogna necessariamente essere miopi per vedere angeli che nascono dalle nuvole […]. Lassù scompare la nettezza della concreta vita terrena, perché lassù tutto scorre come nelle acque di un oceano. Anche una nuvola fitta, impenetrabile, un condensato di nebbia, di materia, si trasforma in pochi secondi, e questa è una metamorfosi che tutti conoscono. Quando si guarda su verso le nuvole, si arriva subito in cielo, senza bisogno né di scala, né di ali. Lo sguardo resta impigliato, e noi stessi diventiamo pura fantasia. Ci basta volgere gli occhi lassù – ed ecco che il corpo incatenato perde la sua determinatezza, comincia a ondeggiare. Pensieri ancorati a terra si liberano della forza di gravità, e insieme allo sguardo si slanciano in alto (ivi, p. 211).
È questo che si scopre quando ci si offre allo sguardo del mondo, ci si sente liberati, sollevati dal bisogno di controllare: «Guardo questa nuvola, e tutto ciò che è pesante dentro di me diventa lieve e carico di senso, e ciò che è solitario diventa unico. Attraverso la nuvola guardiamo il cielo in tutta la sua immensità. Dobbiamo entrare nel paesaggio» (ivi, pp. 211-212). Ma entrare nel paesaggio che cosa significa, in fondo, se non che dobbiamo abbandonare la nostra posizione, quella del soggetto sovrano, e diventare propriamente paesaggio, cioè lasciarsi appunto avvolgere dalla radicale visibilità del mondo? Perché entrare nel paesaggio significa, in realtà, che non c’è più alcun paesaggio, dal momento che il paesaggio esiste solo per uno sguardo che lo osserva da lontano; dentro il paesaggio non c’è più alcun paesaggio. C’è solo il mondo, appunto.
Per questa stessa ragione «la foto esige silenzio, come se le parole potessero intimidire la fragilità dello sguardo» (ivi, p. 41); le parole, come quelle dell’esercizio di ecfrasi in cui si cimenta in questo libro Katja Petrowskaja (ma come anche queste stesse parole, che commentano un commento di fotografie), in realtà distraggono perché ci portano a cercare, nell’immagine, il soggetto, ossia ciò che l’immagine rappresenta, e così ci sfugge il fatto stesso dell’immagine. Perché, come non può non ammettere all’inizio del libro Petrowskaja, è la foto che ci guarda, non il soggetto ripreso. È questa la ragione della “fragilità” dello sguardo, perché è sempre sul punto di venire meno, e di lasciarsi catturare dallo sguardo inumano della fotografia, e quindi, appunto, del mondo.

Katja Petrowskaja, La foto mi guardava, Adelphi, Milano 2024.
*Per le immagini courtesy Adelphi.