Di fronte a un film come La forma dell’acqua – il film di Guillermo Del Toro, premiato a Venezia con il Leone d’Oro – bisogna resistere alla tentazione della “erudizione da nerd”. Alla prima visione è come se accanto a noi ci fosse Slavoj Žižek, il celebre filosofo “marxista-lacaniano” e, tra le altre cose, critico cinematografico. Lo Žižek immaginario è l’amico nerd che sa tutto di cinema. La sua ricca cultura filosofica lo porta a fondere insieme marxismo e psicoanalisi, a recuperare Hegel in chiave anti-idealista e soprattutto a servirsi, con intelligenza e un pizzico di astuzia, di questa formidabile batteria di concetti per smascherare ciò che sta dietro un’innocente commedia hollywoodiana. L’anno scorso hai profondamente apprezzato la sua corrosiva critica di La La Land. 

Ora ti trovi di fronte a un oggetto per certi versi simile. Cambia l’epoca: siamo tornati all’America degli anni sessanta. Al centro c’è sempre il desiderio dell’individuo comune di uscire dalla vita ordinaria. In La forma dell’acqua è la storia di Elisa Esposito (Sally Hawkins): orfana e muta – da bambina le hanno inspiegabilmente reciso le corde vocali – Elisa lavora come addetta alle pulizie in un misterioso centro di ricerca governativo nei pressi di Baltimora. La sua vita ha solo routine: ogni mattina si sveglia, si masturba nella vasca da bagno, prepara il pranzo per lei e il vicino, l’anziano illustratore in bolletta, scapolo e omosessuale Giles (Richard Jenkins). Prende l’autobus, raggiunge il centro. L’amica e collega afroamericana Zelda (Octavia Spencer) le tiene il posto per timbrare il cartellino nonostante le proteste di una collega, sempre la stessa. La sera tutto finisce, per poi ricominciare il giorno dopo. Unici svaghi in questa vita per Elisa sono, oltre alle chiacchiere di Zelda, la complicità con Giles e il cinema: Elisa e Giles vivono nel mezzanino, dall’aria bohémien, sopra un cinema dove vediamo proiettare i grandi classici di Hollywood: peplum, commedie sentimentali, musical. Quando lo schermo non è quello del cinema, la televisione ne supplisce l’assenza.

Lo Žižek immaginario che è forse in tutti noi si divertirebbe a scovare ogni singola citazione presente nel film. Non contento, cercherebbe altri dettagli. Importante è certamente il calendario che nel retro della pagina da strappare contiene un pensiero di augurio per il giorno, perfetto surrogato dell’oroscopo, sulla cui funzione nella società contemporanea Adorno condusse un’analisi critica esemplare. Žižek si convince di dover trattare il film come una sorta di ricapitolazione generale a posteriori della “industria culturale” teorizzata da Adorno e Horkheimer. Il cuore del film gliene offre materia. La forma dell’acqua narra infatti la storia di come Elisa scopre che nel centro è nascosto un monstrum nel senso letterale del termine: un essere marino, anfibio, dal corpo (maschile) simile a quello umano, allo stesso tempo terribile e meraviglioso. Il film si ambienta nel 1962 e gli americani analizzano il “mostro” per capire se possa essere utile nella Guerra fredda.

Il film non delude da questo punto di vista e mescola i generi: il dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), lo scienziato che deve studiare il mostro, si chiama in realtà Dimitri ed è una spia russa. Abbiamo la spy story. C’è la fiaba, sul modello – direi quasi struttura – de La bella e la bestia: la bella, rigorosamente povera, sarà la sola a capire che la bestia è un principe e per questo sarà premiata con il suo amore. A conferma dello schema c’è l’antagonista della bestia-principe, il violento e malvagio difensore dell’ordine, il colonnello Strickland (Michael Shannon). Ma c’è spazio anche per il gotico: come un novello Dracula – il pensiero non può non andare a Dracula di Bram Stoker (1992) di Francis Ford Coppola  – il mostro non può dare l’amore al di fuori del mondo subacqueo e nel finale farà morire annegata Elisa: il binomio decadente “amore e morte”, consonante con l’atmosfera camp che avvolge la vita della protagonista, è rispettato. Non è la bella a trasformare il mostro, ma il mostro la bella. E il gotico, da Frankenstein in avanti, procede insieme alla fantascienza. Accanto ad amore e morte, c’è il mistero della vita: alla fine resteremo con il dubbio che il mostro non sia uno scherzo della natura tanto incredibile che, prima di essere ucciso nel duello finale, Strickland lo definisce un “dio”, bensì il frutto di un esperimento scientifico. Lo suggerirebbe l’oscura attrazione “tra simili” che lo lega a Elisa, muta non dalla nascita ma per via di un’operazione chirurgica subita da bambina.

A questo punto sentiremmo forse il bisogno di fermarci, perché qualcosa non torna. Del Toro sembra strizzare l’occhio a due livelli di lettura diversi, quasi che nel film siano riscontrabili due “testi” sovrapposti: da una parte, la fiaba, così complessa e ipertrofica da sfondare l’orizzonte del mito; dall’altra, la demistificazione dell’industria culturale.  Ma a questo secondo “testo” mancano due elementi, riscontrabili invece in altri autori liberal americani quali i fratelli Coen e Iñàrritu, che non a caso Del Toro ringrazia nei titoli di coda. Penso in particolare per i Coen ad Ave, Cesare! (2016) e per Iñàrritu a Birdman (2014). Nel primo caso l’immaginario politico maccartista, tanto americano in senso ampio quanto hollywoodiano in senso stretto, è messo alla berlina e mostrato in tutta la sua inconsistenza e contraddittorietà. Nel secondo caso assistiamo al tentativo da parte del cinema di riappropriarsi della figura del supereroe in una dimensione anti-eroica.

Nemmeno il “testo” della fiaba rende conto di se stesso fino in fondo: è proprio l’inquadramento nell’atmosfera hollywoodiana a essere d’impaccio. Il cinema hollywoodiano dovrebbe garantire la corrispondenza tra le emozioni suscitate nello spettatore attraverso l’identificazione con il protagonista e l’happy end; ogni aspettativa del pubblico va soddisfatta. Il finale introduce invece un’ambiguità, propria più dell’opera d’arte che del racconto ideologicamente chiuso: Elisa raggiunge la felicità solo nella morte. Žižek si sente messo all’angolo: ha fatto perfino ricorso a nozioni “vetero-strutturaliste” per smascherare gli artifici dell’industria culturale. Il cinema hollywoodiano gli rende il servizio offrendogli un suo doppio speculare e per questo intrattabile: allo stesso tempo opera d’autore e prodotto di intrattenimento.

Non resta altro da fare che provare a considerare ciò che il film non può fare a meno di evocare, senza poterlo sostenere fino in fondo. La forma dell’acqua è un film povero di campi lunghi. La cosa è tanto più curiosa se si considera che la storia si svolge in un grande e misterioso centro di ricerca, di cui non vediamo mai una ripresa d’insieme. L’obiettivo è quasi sempre sui volti – il primo piano sul volto di Strickland quando entra in scena è quasi il contrassegno che lui è “il cattivo” – o sugli scorci come l’insegna del cinema vista dalla finestra di Elisa. In alternativa la visione è quella degli schermi, cinema e tv, capaci di controllare le emozioni, come accade al mostro liberato e nascosto tra gli appartamenti di Elisa e Giles. Lo sguardo spazio poco. Il film si apre però con l’enigmatica immagine di Elisa sospesa come in trance sopra il divano dove dorme di solito, con la maschera da notte sugli occhi, in un appartamento – ed è lecito immaginare un’intera città – sommersa nell’acqua. La voce narrante introduce il racconto promettendo che alla fine capiremo il significato della scena. Ma ciò non accade. Nel finale, il mondo degli esseri “normali” torna alla sua esistenza ed Elisa è portata dal “mostro” nell’acqua, dove potrà infine amare. Non si realizza la “collisione” tra la fiaba e il suo doppio inquietante: la catastrofe è rimandata.

Riferimenti bibliografici
T.W. Adorno, Stelle su misura, Einaudi, Torino 1985.
Id., Ricapitolazione sull’industria culturale, in Parva aesthetica, Feltrinelli, Milano 1979.
T.W. Adorno e M. Horkheimer, L’industria culturale, in Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
F. Carmagnola, Il mito profanato, Meltemi, Milano 2017.
V. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1983.
S. Sontag, “Note su ‘camp’”, in Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano 1967.

U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1967.

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