La resistenza di un corpo ad esser filmato. La resistenza di un regista ad aderire allo sguardo (e alla parola) di chi è filmato. Fare un ritratto al cinema può essere un atto pericoloso, un gesto limite, perché non si sa mai fino in fondo chi sta (e si sta) veramente ritraendo. Cinematograficamente, ritrarre è sempre pericoloso, perché nel migliore dei casi è un corpo a corpo, è l’incontro tra due sguardi, tra modi diversi di raccontare. Come sapeva Deleuze, ciò che il cinema del reale mostra, anzitutto, è il modo specifico che ha un personaggio di affabulare se stesso, di creare cioè il suo proprio racconto, il racconto di sé. La forma dello sdoppiamento.
Uno spazio lontano, la provincia statunitense, i boschi del Vermont. Un uomo che parla, un uomo anziano. Un misto di genovese e inglese. L’uomo è immigrato, è evidente. Ha 87 anni, ha un passato, quel passato è immerso, ovvio, nel Novecento. L’uomo, Piero, parla. Parla per tutto il film. Spesso inquadrato da seduto, all’interno del suo studio, illuminato solo da una lampada da tavolo, l’uomo parla, racconta. Passando dall’italiano all’inglese, l’uomo racconta la sua esperienza. L’esperienza del fascismo, dai 15 ai 19 anni; l’uomo, Piero, parla e racconta della sua esperienza dunque, come fascista prima e repubblichino poi; parla del gruppo dei “Risoluti” di cui faceva parte, del principe Borghese, della X° MAS. Parla delle violenze, della violenza in sé; del suo essere, in quanto fascista, anzitutto violenza. Parla di morti, di massacri, di pentimento. La sua voce trema a volte, memore dei suoi atti, dei gesti che ha compiuto o di cui è stato testimone. Trema, per un po’, per un attimo. Poi si innalza, quasi orgogliosa, quasi ricordando la sensazione di potenza che in quegli anni aveva sentito.
Un uomo nel Vermont parla, racconta di sé. Ma lo vediamo cantare nel coro della chiesa, commentare attonito il gesto di un folle che irrompe in una scuola in Oregon e uccide chiunque si proclami cristiano. Lo ascoltiamo un attimo prima e un attimo dopo discutere con la moglie su cosa cucinare per pranzo (“Vuoi della lasagne?”; “Mi sembra ci sia ancora del pesto”, “Del pesto? No, mi sembra di no. Vado a vedere”). Ancora: lo vediamo domandare al regista la sua opinione: ascoltiamo allora il silenzio di Giovanni Donfrancesco, che non gli risponde, non lo segue.
Che cosa stiamo vedendo allora, quando vediamo le immagini de Il risoluto di Giovanni Donfrancesco, passato alle giornate degli autori nella kermesse veneziana? Si tratta di un ritratto, di una testimonianza? O di qualcosa che si situa altrove? Un ritratto, certo, si tratta anche di un ritratto, forse proprio nel senso in cui ne parla Jean-Luc Nancy, quando definisce il ritratto una esposizione del soggetto.
Piero è esposto, si espone. Ma cinematograficamente, questa esposizione è doppia, o meglio, è una spirale. Piero è esposto come soggetto allo sguardo del regista, allo sguardo dello spettatore, ma è esposto anche alla sua rappresentazione di sé. Ogni film-ritratto in fondo può presentare questa doppia esposizione: non avveniva questo in El sicario di Gianfranco Rosi? In cui il killer pentito del cartello messicano, dal volto coperto da una maschera, si espone raccontandosi attraverso un block-notes? Non avviene lo stesso in Del ritorno di Giovanni Cioni? Quando Silvano, superstite di Mathausen libera la sua potenza affabulatrice, in un racconto lungo, esausto e lacerante? In tutti e due i casi, sia nel film di Rosi che in quello di Cioni, lo sguardo della macchina da presa cattura la decisione del soggetto di esporsi e il modo in cui decide di farlo. La regia è allora il mondo di dare una forma a questa decisione. Il killer a volto coperto disegna schemi e dinamiche dei suoi racconti, astraendo in un certo senso e astraendosi rispetto alla sua storia, alla sua realtà (tutto è disegno, tratto, astratto). La camera di Cioni si avvicina alla decisione di Silvano di parlare, di raccontare senza sosta la sua storia, per condividerla, per testimoniarla.
Quello che prende corpo in questi film è allora ciò che Nancy non aveva previsto (forse perché si tratta di un atto puramente cinematografico, non pittorico), cioè il ritrarsi del soggetto nel momento stesso in cui viene ritratto dalla macchina da presa. Il doppio ritratto. A volte il soggetto riesce a costruire la propria immagine con una forza che sfugge al controllo dello sguardo registico. Si pensi a Comandante, il film diretto da Oliver Stone nel 2003, la lunga intervista a Fidel Castro. Lì, la forza del leader cubano lentamente dà una svolta al film e Castro prende il controllo, diventa personaggio e regista al tempo stesso. Orienta lo sguardo e lo dirige. Il soggetto si espone fino a dipingere egli stesso il quadro. È anche questo il rischio del cinema, il rischio della sua cesura, della sua chiusura, del suo fallimento.
Per questo Donfrancesco lascia scorrere la camera anche nei momenti in cui Piero tace e guarda intensamente di fronte a sé; oppure monta la voce del personaggio sul piano del suo volto immobile, sottolineandone ogni volta la costruzione, l’esposizione doppia di un soggetto. Questa spirale, questo doppio gioco è anche un gioco di forze. In un momento fondamentale del film, quando Donfrancesco fa notare a Piero che c’è una contraddizione nel suo racconto, Piero lo attacca, lo accusa di cercare di farlo cadere in contraddizione: “Tu mi hai cercato!”, gli rinfaccia. “Ma tu mi hai parlato, perché avevi voglia di parlare” gli risponde Donfrancesco. È un momento di stallo, di silenzio. Il volto di Piero in quel momento, mentre ascoltiamo queste parole è impassibile, pensoso. Ma noi ascoltiamo la sua voce. E dopo una lunga esitazione, il racconto ricomincia, il soggetto riprende ad esporsi, a mostrarsi come racconto, esposizione di sé.
Ecco allora, ancora una volta, farsi strada una teoria del ritratto, del doppio ritratto, che attraversa potentemente le forme del cinema contemporaneo e che si intreccia prepotentemente con il tema del testimone e della testimonianza. Di fronte alle dinamiche dell’esposizione di sé, dell’affabulazione di un soggetto che si costituisce come tale, non possiamo più pensare alla testimonianza con sguardo ingenuo. Essa è sempre sottoposta a dinamiche che la presentano e la trasformano. Ed è qui che interviene uno sguardo critico.
Nel finale del film, Piero, intento a lavorare nel suo giardino si rivolge direttamente a Donfrancesco:
Io mi sono sempre raccontato storie, gli dice, ma ora sono io che te lo domando. Pensi che io sia un essere vivente, un essere veramente vivente?
Io mi racconto storie, dice Piero. Io affabulo me stesso. Puoi forse dirmi tu la verità su di me? Fare del mio ritratto l’immagine di ciò che sono veramente? L’unica risposta è quella di continuare a filmare, di puntare la camera su Piero, di lasciar che continui a raccontare storie. Piero allora rinuncia alla risposta e si concentra a dare la caccia ad un topolino che si aggira nel suo orto. Perché la verità del ritratto sta appunto nella dinamica dell’esporsi del soggetto, e la verità del cinema sta nel mostrarlo, nel prepararlo e nell’incontrarlo. La verità del cinema è una resistenza.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
J.L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.