
Era ormai una consuetudine attesa, una sorta di piccolo evento che si ripeteva in ogni film, serie animata, serie tv dedicati ad uno degli eroi Marvel: l’apparizione di Stan Lee, con i suoi immancabili enormi occhiali scuri, in un piccolo cameo comico, ogni volta diverso. Pochi secondi in cui una presenza fisica, il corpo del fondatore dell’universo supereroistico Marvel riappariva a certificare, ancora una volta, il suo essere firma, garante dell’autenticità di quelle immagini, del loro essere continuazione di una creazione antica, che non cessa di rinascere ad ogni testata lanciata dal colosso editoriale americano.
L’ultima apparizione cinematografica, in ordine di tempo, è quella presente in Venom (2018), di Ruben Fleischer. Un paio di inquadrature poste alla fine del film, in cui l’anziano patriarca ammonisce Eddie Brock a non farsi mai sfuggire la donna che ama. A differenza dei cameo hitchcockiani, che apparivano sempre all’inizio del film, in modo tale che lo spettatore non si distraesse dall’intreccio, la presenza di Stan Lee nei film della MCU o della Sony poteva manifestarsi in qualsiasi momento; essa non distraeva dal film, si poneva al contrario come momento separato, ironico (secondo la logica del cameo, in fondo). Ma ogni momento era la certificazione di un legame, tra un creatore e l’universo da lui creato.
Stan Lee, come Walt Disney, Gene Roddenberry, George Lucas appartiene infatti alla ristretta schiera dei creatori di universi, figure cioè che sono state in grado di entrare nell’immaginario collettivo non attraverso una singola opera, ma attraverso la creazione di narrazioni e personaggi che vivono in un universo altro, eppure simbolicamente legato al nostro. La fondazione della Marvel Comics, ad opera di Lee, Jack Kirby e Steve Ditko, lo si è detto più e più volte, cambierà per sempre l’orizzonte del comic americano e mondiale.
Se l’universo dei supereroi, nato fumettisticamente alla fine degli anni trenta (e monopolizzato dopo la guerra dalla DC Comics), proponeva un mondo di figure totalmente dedite alla loro missione di combattere il male, figure di divinità moderne, senza macchia, che si ergevano come baluardi dell’umanità, l’universo che a partire dall’inizio degli anni sessanta Stan Lee inventerà (insieme all’imprescindibile genio creativo di Kirby, Ditko, John Buscema e altri), sarà diverso, abitato da eroi sì, ma tormentati, esposti al fallimento, ai loro difetti, alle loro menomazioni (la cecità di Brian Braddock/Devil, l’inarrestabile trasformazione in mostro di pietra di Ben Grimm/la Cosa, l’handicap fisico della controparte umana di un dio come Thor, la fragilità del cuore di Tony Stark, l’incapacità di controllare la furia animale di Hulk da parte dello scienziato Bruce Banner). O anche eroi loro malgrado, perché dotati di poteri sin dalla nascita, come i mutanti. Uomini e donne i cui poteri portano spesso ad un destino di isolamento o follia.
La creazione di un mondo e delle sue regole, un mondo di eroi, di supereroi la cui concretezza e umanità, i cui problemi, dubbi, lacerazioni interiori costituivano la loro essenza insieme alle quotidiane battaglie contro nemici via via più potenti. La fragilità di un adolescente isolato e sbeffeggiato dai suoi compagni perché serio e studioso emerge sin dalla prima tavola di Amazing Spider-Man (Webb, 1961), in cui Peter Parker, magro, allampanato, nascosto dietro enormi occhiali da miope, guarda da lontano i suoi compagni di scuola che ridono e scherzano. Spider-Man è l’emblema del mondo che sta nascendo dalla penna di Lee e dai disegni essenziali e secchi di Ditko, tanto da lasciarsi andare ad una vanità senza pari nel momento in cui scopre di aver acquisito dei poteri speciali. Vanità che lo porterà ad essere in parte responsabile della morte di una persona amata.
Al mondo solare, lineare, manicheo della DC (con la sola eccezione, non di poco conto, di Batman) si contrappone una visione diversa, fatta di luci ed ombre, capace di intercettare la mutazione dello sguardo che gli anni sessanta stanno introducendo nella sensibilità collettiva negli Stati Uniti (e nel mondo). Ma la mutazione dell’orizzonte non finisce qui. Stan Lee inizia a firmare le proprie storie: nella prima pagina di ogni albo compaiono i nomi degli autori, sia delle storie che dei disegni e delle chine.
La dimensione autoriale consegna allora ai lettori la possibilità di intercettare uno stile, un modo di interpretare personaggi, di trasformarli, rileggerli. Gli autori diventeranno sempre più importanti nel corso del tempo (sia gli scrittori che i disegnatori), fino appunto ad introdurre, all’interno di un sistema industriale di produzione di massa una dimensione artistica fino a quel momento negata (basti pensare a Simon e Shuster, i due creatori di Superman, che per molti anni vissero in miseria assistendo inermi ai sempre maggiori trionfi della loro creatura).
Autori come Peter David, Alan Moore, Bill Sienkiewicz, John Byrne, Todd McFarlane, Jim Lee, solo per citarne alcuni. Creatori di un proprio stile, di un proprio sguardo. Con il passare degli anni e delle generazioni saranno loro a prendere le redini creative dell’universo fumettistico, migrando dalla Marvel ad una DC Comic in profondo rinnovamento, oppure fondando nuove case di produzione come la Image Comics.
Ma la firma cessa di essere reale e diventa simbolica. Nei primi anni settanta Lee smette di scrivere storie e diventa prima publisher della casa editrice e poi il volto-immagine della Marvel, partecipando a convention, incontri, trasmissioni televisive, fino appunto alla pratica rituale del cameo negli ultimi anni. Il creatore si siede a lato del mondo che ha creato e lo osserva crescere, mutare, così come altri universi intorno a lui (in primis quello della DC Comics) mutano e si trasformano.
Le mutazioni sono profonde, radicali. Negli anni ottanta anche la DC Comics cessa di essere legata alla concezione dell’eroe senza macchia e tutto d’un pezzo per stravolgere dall’interno le certezze dei propri personaggi e dei propri lettori. Batman e Superman diventano eroi lacerati internamente, i toni si fanno cupi e la crisi diventa quotidiana. La Marvel, dal canto suo, radicalizza le scelte che avevano reso famosa la “casa delle idee”. Antieroi, personaggi controversi come Il Punitore, Deadpool o Venom entrano prepotentemente in scena, i personaggi crescono (secondo le regole dei comics book, un anno ogni quattro anni “normali”).
Peter Parker, che aveva 16 anni al tempo della sua prima apparizione nel 1961 ne ha ora dunque una trentina, è diventato capo di una azienda, ha nuove responsabilità, amori, figli, delusioni. Steve Rogers (Capitan America), decide di lasciare il suo ruolo e di ritirarsi a vita privata, Wolverine muore, gli X-Men sono allo sbando, divisi tra loro, accerchiati da una umanità sempre più ostile verso i mutanti, smarriti dopo l’uccisione di Charles Xavier, il loro mentore, ad opera del suo pupillo Scott Summers (Ciclope). Tony Stark (Iron Man) continua ad essere sempre più lacerato dalla sua identità di capitalista fabbricatore di armi e eroe leader dei Vendicatori.
Stan “the man” (come si firmava negli albi da lui scritti) continua a comparire come bandiera della Marvel; il suo volto sorridente sembra non essere scalfito dalla mutazione in atto. Mutazioni simboliche ed economiche (l’acquisto della Marvel da parte della Disney; la creazione di uno dei più potenti studios hollywoodiani, i Marvel Cinematic Studios, la proliferazione di testate, film, serie d’animazione destinate a tutte le fasce d’età); mutazioni che tingono però di colori oscuri il mondo Marvel, sempre più capace, da questo punto di vista, di riflettere una America inquieta, senza equilibrio, specchio di un mondo in crisi.
È forse allora ancora nelle testate storiche, nelle miniserie dedicate ai personaggi classici della Marvel che si deve ritornare. Là dove è la figura stessa dell’eroe ad essere messa in discussione, là dove le certezze vengono minate costantemente, dove la vita si riflette nelle storie non più legate al mito. Forse è anche per questo che Stan Lee continuava a sorridere e a divertirsi, fino all’ultimo istante, conscio che la capacità che la sua creazione ha avuto di trasformare il mito dell’eroe in specchio della realtà non solo non è scomparso in un sistema industriale potentissimo, ma è ancora lì, a raccogliere le inquietudini di una nazione (e di un mondo) disperatamente alla ricerca di eroi.