Ernesto De Martino (1908-1965) è una delle figure centrali di quel che potremmo chiamare «Novecento italiano». Nel secondo dopoguerra, l’antropologo lavora nelle terre del Sud mostrando la complessità del pensiero magico-rituale. La riedizione della sua opera più ambiziosa e incompiuta (La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali) consente di non cedere alla tentazione di fare di De Martino il precursore dell’esotismo che ammira la bellezza della taranta o del rimpianto contemporaneo per le vecchie tradizioni contadine. I frammenti di cui si compone l’opera sono stati ordinati diversamente rispetto alle edizioni precedenti, non compaiono le citazioni raccolte dall’autore ma prive di commento; l’insieme dei materiali è stato arricchito da qualche inedito e testi pubblicati altrove.

Il volume ha il pregio di far saltare all’occhio due fatti macroscopici. Il primo è di ordine filologico. Già nelle edizioni del 1977 e 2002, la curatrice provava a dar conto di un materiale travolgente fatto di appunti, citazioni, riscritture. L’obiettivo era di operare senza «soggettivismi» (Brelich in Gallini 2002, p. XXVIII) e per questo la risistemazione era stata affidata a una pluralità di studiosi. Poco dopo la firma del contratto d’edizione, però, la realizzazione del progetto risulterà «precocemente erosa da situazioni dolorose e paralizzanti» (Gallini 2002, p. XXIX) con il risultato di una curatela appassionata ma solitaria. L’edizione del 2019 segue il progetto originario segnalato nel 1967 da Angelo Brelich all’editore Bollati ed è frutto di un lavoro finalmente collettivo che si avvale delle carte disponibili nell’Archivio De Martino (preziosa è la tavola delle corrispondenze in fondo al volume: De Martino 2019, pp. 581-585).

Il secondo dato è di tipo teorico. La nuova edizione rafforza l’impressione che il libro cui stava pensando De Martino non desiderasse offrire al lettore solo un’antropologia culturale ma anche una antropologia filosofica. Il titolo incarna il senso, scarno o suggestivo come si preferisce (per alcuni «vagamente iattatorio» ivi, p. 69), di un progetto teoretico che riguarda la struttura che assume l’essere per Homo sapiens. Sulla scia di «Husserl-Heidegger-Binswanger» (ivi, p. 194), De Martino chiama «mondo» una struttura che si distingue per due proprietà. In primo luogo, gli umani vivono dell’ethos «del trascendimento» (ivi, p. 182 e sgg.). «Perché vi sia un mondo», continua De Martino, «occorre emergere da esso, […] non coincidere immediatamente con la situazione ma staccarsene» (ivi, p. 538). Non si prendano queste frasi come allusioni esoteriche. Gli umani, per sopravvivere, devono organizzarsi in gruppo. Anche l’economia dei raccoglitori-cacciatori si regge su pratiche fondate sulla mancanza di immediatezza: al fine di accendere un fuoco, costruire un riparo o mangiare a sufficienza è necessario attendere che il frutto maturi, andare in cerca del legno adatto, sottrarre alla combustione rami utili per il giaciglio. Il distacco da pulsioni e sensazioni coincide con una facoltà di organizzazione dei dintorni non necessaria alle altre specie animali.

De Martino si concentra sulla caratteristica di «rischio» propria dell’esistenza mondana. Il peso, degno di «Atlante» (ivi, p. 225), costituito da una biologia che impone la costruzione dei mezzi della propria sussistenza fa della vita una faccenda pericolosa. È pericoloso esistere secondo la contingenza dei processi storici invece di affidarsi alla ripetizione del meccanismo istintuale. A tal proposito, la nozione di «storia» svolge un ruolo propulsivo, un motore però tutt’altro che glorioso. La storia «racchiude un momento inesauribile di angosciosità» (ivi, p. 262) perché le nostre azioni, le cui radici affondano in una manualità lateralizzata (ivi, p. 514), ci sfuggono letteralmente tra le dita. La storia è una macchina oscena: difendendoci dal rischio della fine, ricorda sempre la sua possibilità concreta.

Come noto, il secolo ventunesimo è cominciato all’insegna di una spiccata diffidenza verso la dimensione storica, tanto nella sfera politica che in quella filosofica. Il nuovo millennio fa dell’incertezza la cifra distintiva di una vita imprenditoriale (Knight 1921) così prototipica da trasformare la nostra nella società del rischio (Beck 1986). De Martino svincola «storia» e «rischio» dalla morsa asfittica di chi ne fa parole d’ordine. Mi limito ad abbozzare il profilo di un esempio. Il libro segna la traccia, interrotta ma visibile, di una rilettura in termini antropologici della categoria freudiana del «perturbante». Nel testo, l’espressione «Unheimlich» ricorre a più riprese. In alcune occasioni la formula pare il mero riferimento etimologico al sentirsi «non a proprio agio» (ivi, p. 190) del «malato» che «perde la sua patria» (ivi, p. 112) perché «spaesato» (ivi, p. 169). A un esame più attento, però, emergono usi dell’espressione più originali. Mentre Freud si concentra su casi di manifestazione intermittente, De Martino utilizza una gran mole di studi legati alla psichiatria esistenziale per insistere sul carattere endemico di una esperienza in grado di farsi onnipervasiva.

Il perturbante diviene un «troppo poco» di semanticità capace di contaminare «l’accadere quotidiano complessivo» (ivi, p. 174). Invece di seguire il fondatore della psicanalisi sulla strada di «un rimosso che ritorna» (Freud 1919, p. 102), De Martino prospetta un percorso alternativo. Quel che torna in gioco non è l’inconscio, ma la storia. La proposta è riassunta in una nota: «L’uomo è sempre vissuto nella storia ma tutte le culture umane, salvo quella occidentale, hanno speso tesori di energia creativa per mascherare la storicità dell’esistenza» (De Martino 2019, p. 344).

Vale la pena concentrarsi sulla postilla, il sintagma «salvo la cultura occidentale». Mezzo secolo dopo la morte di De Martino, questa clausola pare trovare infatti nuovo significato. La pretesa del capitalismo neoliberale consiste nel non proporsi come un’epoca, quanto come fine di ogni epoca; non come una fase storica (magari la migliore), ma epoca nella quale la storia s’interrompe. Ecco, allora, la centralità del libro per una riflessione sul presente. Di solito, l’alternativa al capitalismo è vissuta come inno al diluvio, minaccia di barbarie e promessa di rovina. Paradossalmente, l’avanzatissima epoca neoliberale ripropone un tema religioso tipico delle culture tradizionali che emerge nel rito latino del mundus (il passaggio tra il regno dei vivi e dei morti da aprire tre volte l’anno) o nella liturgia cristiana, «un grande rituale funerario per una morte esemplarmente risolutiva del vario morire storico» (ivi, p. 272). Capitale, teologia e psicopatologia sovrappongono la fine dell’epoca cui si appartiene alla conclusione del tempo umano. Anche la sindrome schizofrenica o malinconica tendono, infatti, ad accoppiare in modo inscindibile Unheimlich e «catastrofe» (ivi, p. 131): dalla perdita di familiarità con quel che lo circonda, il malato deduce «oscurità, irrigidimento […], terremoto» (ivi, p. 223).

Al contrario il perturbante assume un ruolo, oggi più che mai, decisivo. La coppia perturbante/catastrofe non è frutto di una implicazione logica (se Unheimlich, allora morte e disperazione) ma di un affiancamento contingente, simile a quello che mette l’uno sull’altro due segnali stradali che additano direzioni opposte (a destra «Salerno», a sinistra «Reggio Calabria»). Lo «spaesarsi del paesaggio» (ivi, p. 98), lo «spaesarsi» di ciò che ormai pare definitivamente «appaesato» è in grado di rivelare all’improvviso la «meccanicità» (ivi, p. 174) del mondo nel quale si vive, il fatto di «essere agiti da» altri (ivi, p. 185).

Il perturbante ha la capacità di togliere al mondo culturale la sua maschera antistorica, può condurre sulla via del ritorno storico dal mondo senza storia: riscoprire la contingenza della vita e farla finita con chi pretende di chiudere la storia e con essa ogni conflitto redistributivo (la «fine della civiltà borghese»: ivi, p. 360). La catastrofe, invece, incarna il volto persecutorio di un assetto culturale che, De Martino già lo individua nel significato della bomba atomica (ivi, p. 355 e sgg.), ha la forza tecnica di distruggere non solo il mondo umano ma il pianeta nella sua interezza. Catastrofica non è «la fine di un mondo» (il perturbante) ma solo la coincidenza tra «fine di un mondo» e «fine del mondo» (ivi, p. 210).

Riferimenti bibliografici
U. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2000.
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Einaudi, Torino 2019.
S. Freud, Il perturbante, in Id., Opere, IX, L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Bollati Boringhieri, Torino 1919. 
F. Knight, Risk, Uncertainty and Profit, Houghton Mifflin, Boston and New York 1921.
C. Gallini, Introduzione e Nota redazionale, in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002. 

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