Rendere omaggio a un gigante del pensiero contemporaneo come Stanley Cavell – classe 1926, filosofo del linguaggio ordinario, e autore, tra le altre cose, di alcuni lavori molto famosi sul cinema – non è impresa semplice. La sua recente scomparsa ci offre, se non altro, l’occasione di ricordare la portata innovativa della sua riflessione, che ha ridefinito i termini dei rapporti tra linguaggio, cinema e filosofia, restituendo dignità teorica alla critica dei generi.
Si potrebbe, ad esempio, iniziare da un testo come Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio (1999), il più celebre in assoluto tra quelli che Cavell dedica al cinema (e l’unico tradotto in italiano). In esso l’autore compie un’operazione ardita – seconda soltanto alle dissezioni critiche di Northrop Frye, a cui Cavell dichiaratamente si ispira – creando un modello “rigenerato” di commedia cinematografica a partire da sette film americani degli anni trenta e quaranta, tra cui Accadde una notte (Capra, 1934), Susanna! (Hawks, 1938), Scandalo a Filadelfia (Cukor, 1940) e Lady Eva (Sturges, 1949).
Il rimatrimonio in questione riguarda i protagonisti di queste storie, che ripropongono le strutture dei romance shakespeariani: uomini e donne – con le fisionomie cinematografiche di divi come Katherine Hepburn e Cary Grant – impegnati in estenuanti schermaglie amorose, combattute a colpi di gag farsesche e dialoghi brillanti e mirate al raggiungimento di un equilibrio paritario nella coppia, nonché di una forma salvifica e reciproca di riconoscimento (acknowledgement), immancabile in qualsiasi contesto drammatico, da Aristotele in poi (si pensi all’agnizione o anagnorisis come elemento risolutivo del mythos tragico). Secondo Cavell, queste commedie pongono la questione della validità del matrimonio nei termini di una disponibilità alla ripetizione, a un nuovo inizio e, dunque, al rimatrimonio: «[…] Solo coloro che sono già sposati si possono autenticamente sposare. È come se sapessimo che si è sposati quando si giunge a capire che non si riesce a divorziare, cioè quando si trova che le proprie vite semplicemente non si districano. Se l’amore è fortunato, questa conoscenza verrà salutata dalle risate» (Cavell 1999, p. 105).
Fin da subito, l’impressione è quella che Cavell prenda in prestito dalla tradizione cinematografica, letteraria e critica, tutta una serie di strumenti teorici per poter realizzare l’edificazione di un suo personale pensiero filosofico sui generi e che, quindi, il rimatrimonio (da mero dato diegetico) rinvii soprattutto all’attestazione di un altro legame, quello tra la filosofia e il cinema, in una curiosa intersezione con il tema dell’esperienza autobiografica, essendo la visione dei film legata indissolubilmente all’esperienza ordinaria del singolo spettatore che si riconosce nei personaggi delle commedie.
Quindici anni dopo Alla ricerca della felicità (l’edizione originale è del 1981), Cavell plasma dalla commedia il suo doppio, il “melodramma della donna sconosciuta”, negando tutte le proprietà appartenenti ai membri del genere originario, prima tra tutte la fase del riconoscimento, che viene sostituita da un’opposta variante scettica, denominata “elusione” (avoidance). Come succede in Angoscia (Cukor, 1944) e Lettera da una sconosciuta (Ophuls, 1948), i protagonisti smettono di confrontarsi e di parlare, la coppia si dissolve, i personaggi femminili restano isolati e inconoscibili (unknowness) in una dimensione silenziosa (e lacrimosa) all’interno della quale risultano privati della voce (voicelessness). I melodrammi pertanto:
[…] raccontano versioni interagenti di una storia, di una storia o di un mito, che sembra porsi nei termini di una ricerca della donna per la sua storia, o del diritto a raccontare la propria storia. In un certo senso ciò che ho da dire riguarda la scoperta di una differenza femminile di soggettività; in un certo senso esso assume ciò che nel mio lavoro concepisco come la pretesa della filosofia, il diritto alla sua arrogazione (Cavell 1996, p. 3).
Non è soltanto la dimensione diegetica dei film a poter vantare uno statuto filosofico, ma anche gli elementi di genericità ascrivibili al medium stesso, come spiega Cavell nel testo in cui elabora la parte ontologica della sua teoria, The World Viewed (pubblicato agli inizi degli anni settanta): la realtà proiettata sullo schermo, seppur appartenente alle sfere del passato e dell’assenza, si presentifica nel miracolo tecnologico della fotogenesi lasciandosi riscoprire dallo spettatore in un incontro che non è mai definitivo. Il riferimento costante al vissuto, alla memoria, ai frammenti, a ciò che resta, è, di fatto, il meccanismo che aziona retroattivamente il pensiero cavelliano, un pensiero fondato sul concetto di genere come espressione massima di una certa immagine della filosofia che evita di prendere parola per prima: «E se ciò non va inteso come un modo di avvicinarsi all’indifferenza e all’irresponsabilità, la lezione che se ne trae è che la virtù cardinale della filosofia è la sua responsività, la sua capacità e attitudine a rispondere. […] Che cosa significa questo? Significa che esistono testi che, pur non dichiarandosi apertamente filosofici, hanno comunque un senso filosofico» (Cavell 2004, p. XIV).
Se filosofico è tutto ciò che presenta un’attitudine intrinseca alla responsività, alla conversazione, la teoria dei generi messa a punto in più trent’anni da Stanley Cavell risponde al proposito di far rinascere la filosofia dai segni del linguaggio cinematografico (nelle sue componenti ontologiche e filmiche). Una vera e propria sfida, tipicamente americana, all’interno della quale gioca un ruolo cruciale un’altra tipologia di linguaggio, quello ordinario, come terreno vivo di tensioni irrisolvibili e di trasfigurazioni che si riproiettano da un contesto all’altro – tra il desiderio di libertà e l’immediatezza del cielo – generando costantemente nuovi mondi, nuovi sguardi, nuove voci.
E qui voce è senz’altro un termine chiave che esprime nettamente l’idea di un passaggio: tra interno ed esterno, privato e pubblico, assenza e presenza, identità e alterità, singolare e plurale, “io” e “noi”. Un movimento contrassegnato dall’arroganza, ossia dalla rivendicazione del diritto a prendere parola e a parlare per gli altri, esprimendo un claim. Non si può infatti dimenticare che Cavell nasce filosofo del linguaggio ordinario, studioso del pensiero di Wittgenstein e allievo di J.L. Austin, e che il suo contributo fondamentale alla riflessione contemporanea riguarda la problematica dello scetticismo, sviluppata in lavori fondamentali come Must we mean what we said? (1969), La riscoperta dell’ordinario (2001) e Il ripudio del sapere (2004), quest’ultima interamente dedicata ai personaggi del teatro di Shakespeare, come il Re Lear dell’omonima tragedia e il Leonte del Racconto d’inverno: «[…] Non ci sono limiti che non siamo capaci di infrangere pur di non rivelarci, anche a coloro che più amiamo e più ci amano. […] Si tratta sempre del tentativo di evitare il riconoscimento, della vergogna di sentirsi esposti, della paura di rivelarsi agli altri» (Cavell 2004, pp. 66-68).
Scettico è chi ripudia il linguaggio, perché incapace di rapportarsi agli altri e al mondo attraverso le parole, rinunciando alla dimensione ordinaria (potremmo dire, sociale, commedica) della sua umanità di parlante per abbracciare un destino tragico – folle e silenzioso – in cui non è più in grado di agire e reagire, di comprendere e farsi comprendere, di riconoscere e farsi riconoscere, banalmente di raccontare e di raccontarsi – una condizione che riguarda da vicino ognuno di noi, perfino Cavell, la cui autobiografia ha il titolo emblematico di Little Did I Know. Excerpt from memories (2010).
Rispetto allo scetticismo, il cinema rappresenta un potentissimo antidoto culturale, una vera e propria primavera del riconoscimento, una promessa estetica di redenzione che si estende dal piano dei contenuti a quello della rappresentazione, perché ci riconsegna una forma etica di credito sul mistero del mondo a partire dalla nostra esperienza memoriale di spettatori: «Il film sfrutta la nostra distanza e impotenza rispetto al mondo come condizione della sua comparsa naturale. Promette l’esposizione del mondo in se stesso. […] ciò che rivela è ciò che viene rivelato ad esso, niente di ciò che è rivelato del mondo nella sua presenza è perduto» (Cavell 1979, p. 119).
È questo il Good of Film celebrato da Stanley Cavell nella variegata gamma tonale della sua filosofia. Questione di genere, di voce, ma soprattutto di parole e di educazione:
Nel filosofare devo spingere il mio stesso linguaggio e la mia stessa vita all’immaginazione. Ciò che richiedo è un convenire dei criteri della mia cultura, al fine di confrontarli con le mie parole e con la mia vita, così come io le porto avanti e come posso immaginarle; e, al tempo stesso, per confrontare le mie parole e la mia vita, così come io le faccio procedere, con la vita che le parole della mia cultura possono immaginare per me: per confrontare la cultura con se stessa, seguendone le linee che si incontrano in me. Questo mi sembra essere un compito degno del nome della filosofia. È anche la descrizione di qualcosa che potremmo chiamare educazione (Cavell 2001, p. 175).
Riferimenti bibliografici
S. Cavell, The World Viewed. Reflections on the Ontology of Film. Enlarged Edition, Harvard University Press, Cambridge MA 1979.
Id., Contesting Tears: The Hollywood Melodrama of the Unknown Woman, Chicago University Press, Chicago 1996.
Id., Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999.
Id., La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico, Carocci, Roma 2001.
Id., Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nel teatro di Shakespeare, Einaudi, Torino 2004.