Nel 1947 Edmund Goulding, su sollecitazione di Tyron Power (attore protagonista), diresse La fiera delle illusioni, dal romanzo Nightmare Alley di William Lindsay Grisham, uscito l’anno precedente. Di cosa trattavano, il film come il romanzo? Esiste un sogno antichissimo dell’umanità, che è quello di leggere il pensiero. A questo scopo, sono state elaborate nel tempo tecniche basate soprattutto sui movimenti degli occhi, distinguendo il destro dal sinistro, e sulla direzione dello sguardo, con esiti però, a dire il vero, sempre largamente insoddisfacenti.

Leggere il pensiero è rimasto un sogno a cui però alla gente piace continuare a credere, arrivando all’illusione di riuscire, in questo modo, anche a comunicare con l’aldilà e con i propri cari morti. Perché no? Se possiamo credere che una falsa veggente bendata, percorsa da scariche elettriche finte, ma visibili, possa davvero indovinare il contenuto d’una borsetta (un orologio da taschino, una piccola  pistola…), mettendosi in comunicazione mnemonica col suo partner in sala, perché non credere che sia possibile anche altro, perché non credere che esistano esseri capaci di infrangere le consuete barriere fisiche e permettere l’accesso al mondo segreto delle Anime, dove gli affetti permangono, dove una madre può parlare con lo Spirito di suo figlio e un uomo illudersi di ritrovare il fantasma d’un amore che, da vivo, non seppe conservare?

È qui che comincia il regno dei truffatori dalla parlantina sciolta, ma dotati di un certo carisma, come Stan Carlisle, Tyron Power nel film di Goulding e Bradley Cooper in questo remake di Guillermo del Toro. Il regista messicano tenta di definire la forma dell’acqua attraverso il mostro che la abita (mostro benefico, sia pure) o di addentrarsi nei labirinti del fauno, ma il labirinto stavolta è mentale. È essenziale per Stan prestabilire un codice segreto con Molly, la “veggente” (qui Rooney Mara), strappandolo a Zeena (Toni Collette), per cui la risposta è implicita a seconda di come viene posta la domanda – certo, ma per arrivare a questo Stan non esita a distruggere la personalità del marito di Zeena, fino a provocarne la morte, per prenderne il posto.

Ma a sua volta Stan è aspettato al crocevia di un incontro fatale con Lilith Ritter (Cate Blanchett), una psicoanalista decisa a far soldi sfruttando le illusioni di chi si rivolge a lei: coinvolge Stan nei suoi imbrogli, utilizzando il prestigio che questi ha ormai acquistato preso la ricca società americana, scettica, ma in fondo affamata d’invisibile. Le domande del pubblico, cui il codice permette di rispondere, in genere  sono futili, ma l’affare è buono. Nel circo itinerante inventato da Del Toro, come già in Goulding, non troviamo tanto ricordi di Freaks, quanto del Liliom di F. Lang (anche se non c’è Artaud) e perfino del Liliom di Borzage.

 

È la comunicazione con i morti a rivelarsi l’ultima frontiera dello spiritismo, ma i morti non si lasciano impunemente evocare, devastano poco a poco la psiche di colui che pretenderebbe di condurre il gioco. Perfino un procuratore distrettuale prima apre un’inchiesta su Stanton, poi si lascia convincere dalla promessa di rivedere la ragazza che amava, morta trentacinque anni prima. Occorre mettere in scena l’apparizione della ragazza. Il fantasma, in un bosco di notte, è impersonato da Molly, una donna che a Stanton ha sempre voluto bene. Il procuratore si getta in ginocchio, vorrebbe avvicinarsi, Stanton lo trattiene, ma Molly non riesce a sostenere la farsa e svela il trucco. Stanton deve fuggire, inseguito dai suoi stessi fantasmi, degradato e ridotto a fare il “fenomeno” (l’uomo selvaggio) nel circo. Appare nudo e qui non c’è nessun lieto fine imposto dalla produzione. Ma Goulding sapeva e Del Toro sa che in realtà i morti non perdonano, che il regno dei fantasmi non si lascia mai impunemente evocare.

Non diremmo che il film del regista messicano non faccia rimpiangere, con qualche lungaggine e pesantezza di troppo, la freschezza dell’orinale di Goulding – ma ne risulta comunque il ritratto impietoso d’una società. Tra l’altro, Del Toro non manca di rivolgere un piccolo omaggio segreto a Tyron Power, filmando in una breve inquadratura Romina Power (non accreditata), la figlia di Tyron e Linda Christian. Ma Goulding sapeva e Del Toro sa che in realtà i morti non perdonano, che il regno dei fantasmi, ripetiamo, non si lascia mai impunemente evocare.

Non perdonano i morti, ma anche i vivi sopravvissuti a se stessi, residui dell’irrealtà mediatica. È ancora un uomo Carlisle messo a nudo, ridotto a fenomeno da circo? Se lo chiede anche Chen Oaley (Willem Dafoe), che propende per la bestia. Sono ancora uomini, quei relitti? Sono ancora donne? Sono sogni, sono incubi? È ancora un uomo, Stan, o una bestia, appena buona per spaventare un pubblico impressionabile? Siamo ancora negli anni quaranta, o il vicolo dell’incubo non finisce mai di (ri)edificarsi? Forse già Shakespeare lo sapeva, e noi tutti, Del Toro compreso, lo sappiamo attraverso di lui: «Dormire, forse sognare. Si, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possono intervenire?».

 

La fiera delle illusioni − Nightmare Alley. Regia: Guillermo del Toro; sceneggiatura: Guillermo del Toro, Kim Morgan; fotografia: Dan Laustsen; montaggio: Cam McLauchlin; musiche: Nathan Johnson; interpreti: Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, Toni Collette, Willem Dafoe, David Strathairn, Ron Perlman, Holt McCallany, Jim Beaver, Richard Jenkins, Mark Povinelli; produzione: Double Dare You, Searchlight Pictures; distribuzione: Searchlight Pictures; origine: Stati Uniti, Messico; durata: 150′; anno: 2021.

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