Le donne, nel dolore, attendono. Possono attendere il ritorno dei propri figli, spediti a combattere qualche guerra in paesi lontani o attendere il ritorno dei mariti, dei fratelli, dei compagni, degli amanti, arrestati,  deportati chissà dove. Più nessuna notizia di loro. Altri tornano, ma non ne sanno niente. Migliaia di voci, migliaia di volti, felici che sia finita, difficilmente possono comprendere che per altri non sia finita affatto. Dell’attesa, è terribile l’incertezza, il continuo alternarsi di folli speranze e abissi di disperazione.

Carlo Sini, in occasione del convegno dal titolo “La sofferenza al femminile” tenutosi ad Erba, ha raccontato, commuovendosi al suo stesso racconto, la storia vera di Agnese (una donna, come si dice, “del popolo”, conosciuta da bambino) e dei suoi due figli dispersi in Russia durante la sciagurata guerra fascista, attesi dalla madre per anni e mai più tornati. Avrebbe potuto citare, ovviamente, La douleur, il romanzo autobiografico in forma di diario che Marguerite Duras pubblicò nel 1985, in cui descrive l’attesa per il ritorno di colui che allora era suo marito, Robert Antelme, uno dei capi della resistenza, arrestato a Parigi e deportato nel 1944.

Per mesi di lui non si ebbero più notizie: poteva essere ancora vivo, poteva essere morto e giacere in una fossa comune con la bocca piena di terra, come a volte lo vede Marguerite nella sua immaginazione – finché fu ritrovato vivo a Dachau, ma ridotto in condizioni pietose, dal comune amico François Mitterrand, che lo riporta a casa non senza avvertirla: “Non lo riconoscerai”. Anche la Duras attende, dunque, né può partecipare alla gioia generale per la vittoria. Immagina mille volte la morte di Robert, mille volte immagina il suo ritorno, quando pensa di morire lei, mentre lui suonerà il campanello e dirà “Sono io!”; ma l’attesa non alimenta l’odio per i tedeschi, almeno non per tutti. Marguerite avverte a distanza, con singolare intensità, il dolore della madre d’un soldato tedesco di sedici anni che aveva agonizzato a lungo steso sul marciapiede d’una strada di Parigi. Anche quella madre sarà in attesa, senza sapere che non c’è più niente da attendere.

Ma come scrivere l’attesa? Con quale coraggio farci sopra della letteratura? Qui, come  poche altre volte, lo sperimentalismo del nouveau roman fornisce a Duras la forma più aderente, soprattutto tramite l’estrema economia (quasi l’assenza) di verbi e aggettivi, ossia della grammatica dell’azione. La porta di casa, il corridoio, la finestra, il telefono, soprattutto il telefono: presenze silenziose che impongono la loro muta presenza, animandosi solo a tratti: una telefonata (ma non c’è mai nulla di nuovo), la visita di un amico. Eppure bisogna uscire, compiere alcuni doveri, compilare le liste di nomi per il giornale destinato alle famiglie dei reduci, comprare il pane prima che i bollini scadano, tentare di spedire un pacco… Marguerite si sente sporca, disfatta, maltrattata, dopo i tedeschi, da altezzosi ufficiali gaullisti e da ufficialesse altrettanto altezzose. No, la festa non è per tutti. Per di più, se Robert torna, lei dovrà dirgli, prima o poi, che ora ama un altro, il loro amico Dionys Mascolo…

Allora eccoci al punto: come filmare tutto questo? Come filmare il dolore? Come filmare la scissione psico-fisica indotta dall’attesa? Come filmare il passaggio interminabile d’un tempo che non vuole passare? Nel film, qualche volta Marguerite (Mélanie Thierry, molto intensa) si sdoppia, non solo quando è davanti a uno specchio, ma come se esistesse un personaggio/Duras 1 che osserva e giudica il personaggio/Duras 2. Funzione distanziante ha anche la voce-off, che accompagna l’azione citando testualmente brani del romanzo-diario, di forte connotazione letteraria.

La scelta registica principale di Emmanuel Finkiel, però, è un’altra, e va in direzione del totale ripudio della profondità di campo. Tutti gli sfondi sono volutamente sfocati. Si potrebbe dire che risaltino solo i primi e primissimi piani, se non fosse che neppure questi poi risaltano davvero, immersi come sono in una tenue luce diffusa che non evidenzia i lineamenti. È la stessa scelta operata da László Nemes in Destino (2018), ma già evidente in Il figlio di Saul (2015). Anche in La douleur si aggirano smarrite figure d’acquario, riconoscibili con difficoltà. Perfino quelli cui è destinato il primo piano, basta un piccolo spostamento e finiscono fuori fuoco, ma fuori fuoco finisce spesso anche Parigi, soprattutto la Parigi dei giorni di festa: in certe inquadrature di piazza la folla scompare, oppure si intravvede appena, in strada, dalle persiane chiuse dell’appartamento in perenne penombra, tanto da indurmi a poter dire che questa indeterminazione degli sfondi sia il corrispondente filmico della rarefazione letteraria di verbi e aggettivi.

Tutto rientra nella sempre più accentuata diffidenza che il cinema migliore dimostra ormai nei confronti del racconto – cosa che il cinema della stessa Duras aveva anticipato: romanzi che non narrano, ma riflettono sul concetto di romanzo, film che non raccontano, ma mettono il cinema a confronto con i problemi del tempo e della durata. Finkel segue questa strada sperimentale, tracciata dalla Duras regista, oltre che scrittrice, anche se non la segue proprio fino in fondo. Approfittando della storia del signor X, ossia del collaborazionista Rabier (Benoît Magimel), inserita come racconto a parte nel volume della “Douleur”, inserisce (con discrezione) un elemento romanzesco, quasi da spy-story, tra appuntamenti segreti e schermaglie erotico-politiche, nello schema sperimentale che domina tutto il resto. La paradossale conseguenza è che il personaggio di Rabier acquista, subito dopo quello di Marguerite, una complessità imprevista. Quasi lo comprendiamo, quasi arriviamo a capire le difficoltà della sua posizione. Chissà, forse ama davvero i libri, forse è lusingato di poter frequentare una scrittrice. O forse mira solo ad avere informazioni sulla rete della Resistenza. Ma poi anche Rabier sparisce: rimane l’attesa, cresce la disperazione. Alla fine Robert Antelme ritorna, sì, ma è qualcosa che somiglia al ritorno d’uno spettro.

Riferimenti bibliografici
M. Duras, Il dolore, Feltrinelli, Milano 1995.

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