Lo schermo bifronte dell’occhio cieco

di ROSAMARIA SALVATORE

La dolce vita di Federico Fellini.

La sequenza finale di La dolce vita (Fellini, 1960) è brevemente evocata da Jacques Lacan in due rispettivi Seminari: il settimo sull’Etica in cui lo psicoanalista, a partire dal brano filmico, si rivolge agli astanti per condurre loro stessi a farsi crocevia di una interrogazione su un punto importante del pensiero psicoanalitico: Das Ding (La Cosa). Lacan tornerà ad accennare alla fine di La dolce vita, qualche anno dopo, nel Seminario X sull’Angoscia, in un momento in cui la sua riflessione è volta a delineare lo statuto dell’oggetto a in relazione allo sguardo. A partire da tali riferimenti propongo una lettura della nota sequenza riallacciandola ad altri momenti significativi del film.

Siamo all’alba in una pineta. «I viveur, si mettono in cammino, […] e sono molto simili a delle statue che si muovono in mezzo ad alberi di [Paolo] Uccello», commenta Lacan. I volti sembrano maschere consunte, come se nel passaggio dalla notte al giorno, siano venuti a cadere i sembianti che le hanno sostenute fittiziamente nel loro movimento notturno dettato da un godimento volto ad una asfittica ripetizione. Maschere sfigurate come quella del ballerino il cui trucco sciolto sul volto sembra riverberare un processo di corrosione, che può essere accostato alla rivelazione dell’informe a cui farò riferimento nella mia lettura della sequenza. Infine i figuranti si avviano verso il litorale in prossimità del mostro, avvicinamento progressivo a quel reale metaforicamente richiamato dall’occhio cieco del mostro che, come affermato da Marcello, protagonista del film, “insiste a guardare”. Marcello si avvicina attratto dai richiami dei pescatori e più volte si accosta al mostro marino, quasi infastidito e al tempo stesso catturato da quella insolita visione. Ne scruta i particolari e soprattutto l’occhio vuoto e inerte, fino al momento in cui afferma con fastidio l’insistenza di quello sguardo vitreo su di lui.

Tale cosa schifosa, emersa dalle acque illimitate del mare, manifestandosi con la sua forza destabilizzante e spaesante, possiamo leggerla come l’altra faccia, informe e inquietante, dischiusa nella bellezza corporea di una precedente apparizione, ovvero di quel corpo di donna che si è offerto anch’esso allo sguardo del protagonista del film, corpo che affiora, al pari del mostro, dall’acqua. Faccio riferimento alla sensuale e sessuale apparizione di Sylvia nella Fontana di Trevi e sul cui profilo si rifrange l’impetuosa cascata d’acqua. La nudità della schiena, la fluente onda dei biondi capelli sciolti, il movimento vorticoso dell’acqua che contorna la sua figura può essere accostata, come proposto da Antonio Costa nella sua intensa monografia sul film, alla incarnazione delle ninfe moderne analizzate da Georges Didi-Huberman.

Diverse sezioni del film sono impregnate da un registro onirico: i personaggi paiono sospesi tra realtà e sogno. Questa sequenza abbraccia tale forma: è ambientata in una notte che ha prima visto Sylvia lanciarsi in una danza da tratti dionisiaci per poi allontanarsi e avanzare, con maestosa eleganza, nelle deserte strade del centro di Roma con un gattino sulla testa – richiamo al portamento della ninfa del Ghirlandaio che ha sul proprio capo un vassoio traboccante di frutti –; segno di un intensificarsi del registro fantasmatico. Tono fantasmatico accentuato dallo sguardo di Marcello che, ora vicino alla maestosa fontana, catturato dalla splendente bellezza di lei, la raggiunge nell’acqua, le sfiora il collo e il volto e sta per baciarla mormorando “Ma tu chi sei?”, quando, improvvisamente, dopo una dissolvenza, nell’inquadratura successiva, il movimento fragoroso della cascata d’acqua si arresta, lasciando i due immobili nella luce dell’alba.

E se osserviamo con occhi più avvertiti questa sequenza notiamo che, come nei dipinti di Sandro Botticelli, agisce in essa un contrasto di forze che alludono a una intensificazione della drammaturgia psichica. Nella Nascita di Venere linee di conflitto disegnano contrasti tra la grazia della sua effige e altri elementi figurativi che agiscono in tensione: l’acqua increspata che forma una schiuma, i lunghi capelli mossi dal vento, il vortice d’aria che scompiglia il drappeggio delle vesti delle figure da cui è attorniata. All’armonia del corpo, ai contorni visibili di esso si oppone una composizione che in modo allusivo sfocia nell’informe, nel non componibile in un bell’ordine plastico, così, al pari, il corpo dell’attrice, intensificato dal movimento tumultuoso dell’acqua, può anche essere letto quale involucro visibile di un’altra tensione. Rileggiamo allora la figura di Sylvia come una sorta di superficie che inaspettatamente anima un differente destino: quello di velare lo spalancarsi all’orrore di Das Ding, ovvero di un “reale”, per Lacan, accostabile solo per frammenti, per brecce.

Il mostro marino può allora essere letto quale rovescio bifronte di ogni idealizzazione della donna. Marcello, rapito dalla fisica presenza di Sylvia, danzando, le aveva precedentemente mormorato: “Tu sei tutto Sylvia. Ma lo sai che sei tutto? […] Tu sei la prima donna del primo giorno della Creazione. Sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa…Ah, ecco cosa sei: la casa!”.

Mi piace pensare che i brani del film richiamati non siano poi così lontani da alcune figure che prendono corpo nella raccolta autobiografica di disegni e trascrizioni di sequenze oniriche di Fellini: Il libro dei sogni. Sfogliandolo scopriamo che le figure perturbanti della donna, di mostri marini, di pesci giganteschi con un grande occhio, hanno accompagnato le sue notti. Ibridazioni di forme puntellano il percorso visivo; segnalo una immagine per tutte: i capezzoli del seno prorompente di una donna dall’ampio profilo, stesa frontalmente sull’arenile, richiamano la presenza di due occhi puntati su di noi.

Ma ricordiamo che un altro particolare della sequenza finale ci cattura in direzione dello sguardo. Il brano non si conclude con l’occhio cieco che ri-guarda insistentemente Marcello. Altri occhi e una voce distante e da lui non udibile lo interpellano, quella di una giovanissima donna, Paolina, che tempo addietro prima che lui cedesse alle lusinghe della società corrosa a cui adesso appartiene, sulla terrazza di una trattoria dinanzi al mare, era stata da lui accostata agli angioletti che ornano quadri nelle chiese umbre. Marcello preferisce non afferrare quell’occasione, sceglie di non trovare pacificazione in quel ritratto che doma lo sguardo; con una smorfia il suo volto ormai fissato in una maschera si volge verso un’altra direzione. Volgendole le spalle, Marcello si allontana. A noi spettatori Fellini concede nell’ultima inquadratura del film un primo piano del viso pulito della ragazza con gli occhi luminosi e limpidi, dischiuso in un dolce sorriso, così da pacificare il nostro sguardo, dimentichi, per un attimo, di essere anche noi, sotto uno schermo, esposti a ciò che ci ri-guarda.

Riferimenti bibliografici
A. Costa, Federico Fellini. La dolce vita, Lindau, Torino 2010.
G. Didi-Huberman, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Einaudi, Torino 2001.
F. Fellini, Il libro dei sogni, Rizzoli, Milano 2007.
J. Lacan, Lacan VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, Einaudi, Torino 1994.
J. Lacan, Jacques Lacan. Il seminario. Libro X. L’angoscia 1962-1963, Einaudi, Torino 2007.

Federico Fellini, Rimini 1920 — Roma 1993.

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2 commenti

  1. Valter Barbarito

    Fellini anticipa quella realtà fatta di frammenti non riaggregabili che è la realtà inafferrabile e sfuggente del sogno.

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