Reality (Garrone, 2012).

Realitismo

Del cinema del reale s’è detto, su questo pagine. Un cinema che di frequente – mentre cerca di annullare il labile confine tra documentario e fiction, tra il riprendere e il rimettere in scena, in memoria di L’uscita dalle officine Lumière – finisce col proporre allo spettatore un rovello etico sullo statuto delle immagini. Cancella e, insieme, volente o nolente, intensifica. Finisce per fare del problema, dell’ambiguità i protagonisti del film.

Prendete i film di Roberto Minervini o Gianfranco Rosi. Fanno proprio un linguaggio, un problema e un’ambiguità su cui gran parte del cinema contemporaneo si pone domande, esasperato dal continuo registrarsi della realtà, dalla difficoltà di separare scena e retroscena, da un quotidiano in posa seduttiva costante, che il cinema del reale sposa in maniera critica e porta al parossismo. Di fronte all’insorgere del controllo dell’immagine come primaria ossessione contemporanea (tanto che si discute spesso di immagine del politico e non di politica, ed è solo un esempio), il cinema, che un tempo era il teatro d’elaborazione dell’immaginario, oggi non può che reagire come fosse un’arte reazionaria, un luogo di critica all’eccesso d’immagini intorno.

Nel cinema di fiction è Reality (2012) di Garrone l’esempio principale. Ma Dogman (2018) non racconta forse di un eccesso di pressione sul protagonista da parte degli occhi circostanti? E Il racconto dei racconti (2015) non è forse un compendio di storie incentrate sulla febbre del riconoscimento e del suo lessico (e quel finale non è un ritorno allo spettacolo come puro, originario incanto)? Bellocchio, da parte sua, con un film centrale come Il regista di matrimoni (2006) studia la continua riscrittura della realtà da parte dello sciame digitale e dei sistemi di controllo, finendo per mettere ordine a questa realtà multiprospettica e aleatoria con un taglio di montaggio finale che sancisce la rivincita del cinema, una rivincita residuale, che sta nel garantire una verità quantomeno sentimentale a questo eccesso stordente e dunque fallimentare di rappresentazione.

Lo sformarsi della realtà tra televisione e protagonismo reality (non tutti si sono aggiornati ai social e ai new media) è al centro di film distanti come Le meraviglie (2014) di Alice Rohrwacher e Belluscone (2014) di Franco Maresco. L’impossibilità di tracciare confini tra autentico e inautentico produce racconti onirici, allucinati, fantastici, basati su una continua messa in abisso. L’assenza di distinguo tra scena e retroscena è il punto che un regista sottostimato come Pappi Corsicato indaga da Chimera (2001) fino a Il volto di un’altra (2011). Non solo a livello narrativo: il kitsch, in un panorama di copie e gesti inautentici, è una forma di realismo. Lo sa benissimo Paolo Sorrentino.

Pubblicità

Ritorniamo a La grande bellezza (2013), dunque: il titolo, che è l’obiettivo della ricerca del protagonista, sbiadisce nel cielo nero su Roma, illuminato da un enorme logo pubblicitario, a fianco di una festa notturna sui tetti. La luce dei caratteri di La grande bellezza è flebile. È nulla rispetto a quella del logo Martini. Roma per Sorrentino è un carnevale culturale in cui ogni discorso pronunciato è linguaggio di secondo grado, retorica gonfia, ridicolo o aulico ricorso a citazione: il film è un percorso di perdizione, di dispersione del senso in un mondo ridotto a festa, a mascherata, a spettacolo coatto, a letteratura, alta o bassa che sia. E se volessimo dare ragione a Franco Maresco quando sostiene (intervistato da “Pagina 99”) che nel momento in cui Sorrentino interrompe la trasmissione del suo film su Canale 5 con uno spot in cui è alla guida della 500 Fiat il cinema italiano mette in mostra tutti i suoi lati deteriori, è anche vero che quel gesto è coerentissimo con il film.

Perché La grande bellezza è un film sulla pubblicità. Della Martini, della Fiat, a quel punto, e di se stessi. È impossibile riconoscere l’autentico. Quando la Santa, personaggio che ci si attende risolutivo, pronuncia il suo “Le radici sono importanti” siamo di fronte al sincero elogio delle piccole cose o a una delle molte pose (modalità francescanesimo for dummies) che punteggiano il film? E quando lo stesso viaggio dell’eroe termina con il ricordo del primo amore, del suo seno, è un canto elevato all’ingenuità perduta o l’ennesimo sfoggio di poesia poverissima? In La grande bellezza reale e spettacolo sono indissolubili. E ora che il simbolico è collassato sul reale tutto è in superficie. Serena Grandi interpreta Serena Grandi, i personaggi che lasciano Roma si chiamano Romano e Ramona, anagrammi (imperfetto, il secondo) di “Roma no”, e così via. Jep Gambardella cerca – o finge di cercare, vestito da eroe novecentesco – un senso profondo in quest’eccesso di superficie.

Ma le luci del consumismo, le sirene del desiderio, il godimento promesso dalla plastica lo coinvolgono, lo distraggono dal suo intento, ci fanno perdere con lui nell’erotismo vuoto dei movimenti di macchina, nelle cartoline romane, gli fanno dimenticare a tratti l’obiettivo. E allora La grande bellezza, con questo protagonista che nel tragitto da A a B, tra il principio e la fine, rallenta e si oblia tra mollezze e seduzioni, è anche un film che propone allo spettatore l’esperienza aumentata e dislocata di una questione quotidiana (ed è proprio per questo – detto en passant – che la sua critica all’arte contemporanea è un atto di malafede: perché gioca sul medesimo territorio): l’eroe fatica a concentrarsi sul proprio viaggio, per l’eccesso di informazione, per lo stimolo aggressivo dello spettacolo intorno. Per l’assenza di gerarchie.

Politica

Dominio della pubblicità nel quotidiano, dunque. E assenza di gerarchie, non solo nella rappresentazione. Ma anche nella rappresentanza politica. È il punto a cui reagisce, come spiega Gianni Canova in Divi duci guitti papi caimani, lo stesso Sorrentino in The Young Pope, per l’appunto, in cui si restaura un potere papale distante dai riflettori, non visibile e non ridotto a immagine come le altre, e dunque ancora autorevole. È il punto su cui lavora lo sciasciano Roberto Andò quando mantiene nascosta la rivelazione di Le confessioni (2016) o quando gioca d’opacità in Storia senza nome (2018), ennesimo film del regista che non crede nella trasparenza.

Il potere, per essere effettivo, dicono queste opere reazionarie (nel senso che reagiscono al populismo egoriferito e pubblicitario attuale), non può che avere a che fare che col restauro di un segreto, di un allontanamento dalle immagini che governano quotidianamente il mondo, di un rispetto della scena e del retroscena, di una gerarchia di saperi e competenze. Di un cinema che guarda dall’alto in basso le immagini intorno. Che sia popolare o d’autore. Da Poveri ma ricchissimi (2017) di Fausto Brizzi a Come un gatto in tangenziale (2017) di Riccardo Milani, la sovranità popolare e il distacco della sinistra dal paese reale sono raccontati in forma di commedia comunque moralistica. Lo stesso fa Io c’è (2018) di Alessandro Aronadio, con una religione a misura di ego. E Loro 1 di Paolo Sorrentino, prima di dedicarsi alla dimensione privata di Silvio Berlusconi nel volume 2, non mette forse in scena l’anelito della massa, dei loro, a prendere il potere dell’uno? Ma è probabilmente The Place (2017) il film che meglio di ogni altro racconta la crisi della rappresentanza politica.

Nel tuo posto

Se per Ermanno Olmi Il posto (1961) sono la Milano del Boom e Il posto di lavoro, dati che portano la fresca gioventù di un Buster Keaton di provincia verso un tristissimo futuro da impiegato e responsabile, per Paolo Genovese The Place è un locale. Una tavola calda. Indicativo: nei tempi del precariato di Smetto quando voglio (Sibilia, 2014), del populismo politico, dell’opinionismo di tutti su tutto, la questione della responsabilità non s’esercita sul posto di lavoro, ma in The Place. Al bar. Il titolo del film coincide con l’insegna del locale. Il film è la tavola calda. Annullamento dei livelli di rappresentazione. Delle gerarchie. The Place ci sta raccontando un immaginario ridotto, incapace di andare oltre al locale, inetto nel confronto con ciò che sta al di fuori, un immaginario dunque individuale, chiuso su se stesso, onanista e solipsista, in balia dei propri bisogni e noncurante dell’intorno. Un film fatto di parole, parole, parole, parole di persone che vogliono che il loro interesse venga perseguito, che il loro bisogno venga riconosciuto e appagato, che il loro sogno venga espresso, meglio se immediatamente.

Se il personaggio di Valerio Mastandrea è un emissario del demonio, è anche e soprattutto un povero cristo: per soddisfare i loro desideri, prova a dare a questi uomini e donne da bar un compito che li ponga di fronte alla responsabilità nei confronti del prossimo, che li metta di fronte allo specchio delle proprie incoerenze. Ma è cosa vana. Nessuno di loro cresce. Nessuno astrae. Fanno fanno fanno, parlano parlano parlano. Ma non si guardano. Non pensano. Nessuno è veramente capace di uscire dal proprio The Place. Non si chiedono nemmeno chi sia la persona che, di fronte a loro, è in grado di soddisfare ogni proposta. Il personaggio di Valerio Mastandrea non è una maschera. Non è un rappresentante: è un uomo qualunque, in balia delle voglie dell’uomo qualunque. The Place è un film sull’Italia del populismo 2.0, del gentismo, dell’opinionismo, del relativismo. L’Italia che non sa cosa sia la responsabilità, l’Italia rappresentata dall’uomo qualunque. L’Italia con protagonista la chiacchiera da bar. Il cinema che guarda la crisi della rappresentazione. E l’Italia in crisi di rappresentanza.

Riferimenti bibliografici
G. Canova, Divi duci guitti papi caimani. L’immaginario del potere nel cinema italiano, da Rossellini a «The Young Pope», Bietti Heterotopia, Milano 2017.
B.-C. Han, Nello sciame – Visioni del digitale, Nottetempo, Milano 2015.
M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Milano 2017.

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