Quello che oggi si chiama “Antropocene” Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, lo avrebbe chiamato “Spirito Assoluto”, ossia il tempo conclusivo della storia in cui gli animali della specie Homo sapiens maturano la consapevolezza – allo stesso tempo esaltante e terribile – che il loro mondo (cioè le lingue, le tecniche, i valori, le tradizioni, i modi di produzione) coincide ormai con il mondo stesso. Quello che una volta veniva chiamato – con una formula che appunto conferma l’assoluto predominio umano sulla terra – “mondo naturale” (ossia il cosiddetto mondo non umano contrapposto a quello umano) è ormai completamente assorbito dal mondo antropizzato e antropocentrico. Non è un caso che, dopo aver messo a profitto l’intero pianeta e indirettamente anche il sole (che cos’è l’energia solare se non appunto la messa al lavoro della stessa radiazione luminosa che proviene dalla stella che dista circa 150 milioni di chilometri dalla terra?) si comincia a pensare a ”colonizzare” – ossia appunto mettere al lavoro – anche la Luna e poi Marte. Antropocene è allora questo tempo in cui l’umano – e non solo l’Homo capitalisticus, come vuole l’ingenua antropologia anti-occidentale – coincide, senza resti (se non appunto un residuale e sempre più minacciato ”ambiente naturale”) ormai con il mondo.
Il mondo è così nei fatti ridotto ad essere un immenso oggetto tecnico, materiale progettuale per i più svariati e fantastici progetti, che siano quelli di schermare la luce solare per raffreddare la temperatura superficiale terrestre (Helwegen et al. 2019, pp. 453–472), modificare geneticamente i carnivori, ad esempio i leoni, per eliminare la sofferenza degli erbivori cacciati per la loro carne (Van Valkenburgh, 2007, pp. 147–163), trasformare a Berlino un aeroporto dismesso in una foresta (Schwarz, Von Kolpinski 2025) e così via progettando e costruendo. Inteso in questo modo l’Antropocene più che essere un fatto o più precisamente, come vorrebbero i geologi, un’epoca geologica (Crutzen 2006, pp. 13-18), è un dispositivo metafisico, ossia un apparato tecnico-economico-scientifico (quello a cui Heidegger si riferiva con il termine “Gestell”, l’impianto sul corpo del mondo del progetto umanistico; Heidegger 1976, pp. 5-27) che ”produce” il mondo in quanto materiale da estrarre e trasformare. In questo senso radicale l’Antropocene non è propriamente un momento transitorio della storia umana, è piuttosto il completo e definitivo asservimento del mondo intero alla progettazione umana; l’Antropocene è, per usare ancora la terminologia di Hegel, la ”verità” del modo specificamente umano di stare al mondo.
È a partire da questo sfondo metafisico che occorre partire per comprendere, e provare a rendere di nuovo praticabile, la nozione di “crisi della presenza” di Ernesto De Martino. I decenni che sono passati da quando l’antropologo e filosofo napoletano presentava questa nozione costringono, infatti, a rivedere completamente (quasi a rovesciare) il senso di questa nozione. Per De Martino il compito principale della cultura umana – da questo punto di vista che si tratti di una comunità di raccoglitori-cacciatori nella savana oppure di astronauti in una stazione spaziale non fa differenza – consiste nello sviluppare delle tecniche magico-rituali per proteggere e ripristinare la “presenza” umana nel mondo, una presenza sempre minacciata dagli eventi – il più importante dei quali è rappresentato dalla morte – che rischiano di mandarla in frantumi.
Secondo De Martino agli esseri umani, diversamente dagli altri viventi non umani, non è sufficiente essere vivi per essere effettivamente viventi; devono consapevolmente assumere la propria stessa esistenza, devono costantemente impegnarsi ad essere vivi in quanto umani. In questo senso un contadino, ad esempio, per essere vivo deve inserire la propria esistenza in un quadro simbolico – la campagna, la coltivazione, i valori del lavoro, le aspettative sul futuro, l’idea che il proprio sforzo durerà anche per le prossime generazioni – senza il quale la sua vita perde ogni senso. Riportiamo il caso del contadino perché è quello a cui De Martino dedica opere fondamentali, in cui descrive la fine del millenario mondo contadino che in pochissimi anni ha segnato la storia italiana del secondo dopoguerra. Mettiamoci nei panni di un contadino lucano degli anni ’50 del Novecento: tutti i suoi riferimenti, i suoi principi morali, la sua religione, i suoi gesti, i riti, le preghiere, la sua stessa lingua di colpo perdono ogni valore, non servono più, sono completamente inutili. È la situazione che De Martino chiama “apocalissi culturale”, quella appunto in cui un intero mondo culturale, in questo caso quello antichissimo del mondo contadino, quasi di colpo svanisce completamente.
In una situazione del genere la “presenza”, ossia l’insieme di valori che sostanziano la vita di ogni essere umano, quelli che definiscono la sua “identità“ vengono meno. In questo consiste la “crisi della presenza”, perché privata di tutti i suoi riferimenti la “presenza” collassa su di sé e il soggetto non sa letteralmente più chi è né perché fare quello che ha sempre fatto. In effetti, come fare a dire che cosa si è se non si ha più nemmeno una lingua in cui pensarsi e dirsi? Di fronte all’onnipresente minaccia della “crisi della presenza” le civiltà umane hanno sviluppato degli apparati magico-religiosi (la psicoanalisi ne rappresenta una versione laica e aggiornata) per provare a superare questa minaccia, per ristabilire la “presenza”, ossia la capacità di stare al mondo in modo consapevole e partecipe (si tratta appunto di essere “presenti“ a sé stessi, non semplicemente vivi com’è vivo un ragno o un corpo umano in coma). Come scrive lo stesso De Martino nel saggio Crisi della presenza e reintegrazione religiosa (1956) «la civiltà e la storia umane nascono sempre, oggi come in qualsiasi più remoto e arcaico “allora“ e così nasceranno in futuro finché avrà senso la parola “uomo“, per la potenza di distinzione secondo determinate forme o valori, e la presenza culturale, cioè l’esserci nella storia, resta definita appunto da questa energia distinguente» (2025, p. 4).
È chiaro di chi stia parlando De Martino, di quell’uomo che è – secondo il classico progetto umanistico – la “potenza di distinzione secondo determinate forme o valori”, ossia appunto la potenza di decidere di sé e del mondo, perché la sua caratteristica specie-specifica è “questa energia distinguente”. E la prima e fondamentale distinzione, quella da cui discendono tutte le altre, è quella fra il soggetto umano e l’oggetto mondo, fra “uomo” e “natura”. “Uomo”, usiamo ancora questa formula così antica ma anche così precisa, non è altro che questa “potenza” di stare al mondo, una “presenza” che proprio perché è presente a sé stessa è in grado di decidere del mondo. La “presenza”, infatti, non è altro che la separazione dell’umano dal mondo, e quindi la subordinazione del mondo al progetto umano (da questo punto di vista l’indigeno nella foresta che abbatte un albero per costruire una capanna non è meno antropocentrico dell’ingegnere che progetta una galleria che attraversa un’intera montagna).
E che cosa debba sempre di nuovo decidere questo “uomo” De Martino lo esplicita poche righe dopo, quando ribadisce in che consista, propriamente, il rischio della “crisi della presenza”: «Il rischio di non esserci una storia umana si configura come rischio di perdere la cultura e di recedere senza compenso nella natura» (ivi, p. 5). Si è umani, cioè si è al mondo come una “presenza” solo finché questo stesso “uomo” si separa e si allontana dalla “natura”, ossia dal mondo non umano. In effetti il ruolo del mondo non umano, per De Martino, e per il progetto umanistico che incarna, è sempre e solo quello di un oggetto a disposizione del soggetto umano, della “presenza” che è presente a sé proprio perché si è staccata dal mondo: l’«ethos fondamentale dell’uomo [è] questa potenza dialettica che tramuta la natura in cultura, e che la vitalità animale accoglie e feconda, ma per aprirla alle singole concrete opere economiche, politiche, giuridiche, morali, poetiche e scientifiche» (ivi, p. 7). Il non umano non occupa alcuna posizione in questo quadro, se non appunto quello di essere inesorabilmente trasformato in “cultura”, così come la “vitalità animale” non ha altra funzione che accogliere il progetto umano che la “feconda”, cioè la rende fertile, come un campo coltivato, ossia come la terra messa al lavoro.
È in questo contesto che va intesa, ma rovesciata di segno, la posizione di De Martino, in modo che della “crisi della presenza” venga paradossalmente valorizzato più l’aspetto della crisi rispetto a quello della reintegrazione della presenza. Questa condizione, per De Martino, si verifica «quando l’esserci si riduce al semplice esistere naturale»; a questo punto «si consuma la catastrofe della vita culturale, della libertà e della storia umane» (ivi, p. 9). La “crisi della presenza” si verifica, propriamente, quando “l’esserci” – appunto la presenza consapevole di essere una potenza trasformatrice del mondo – si scopre invece come nient’altro che un “semplice esistere naturale”. Si tratta di una affermazione curiosa, la scoperta di essere un’entità “naturale“ rappresenta, per il soggetto umano, per la “presenza”, il rischio maggiore, costituisce una vera e propria “catastrofe”. È così quando il mondo è insensatamente e terribilmente mondo – e quindi si mostra per quello che è sempre stato, un mondo affatto non umano – che la “presenza” entra in crisi, perché allora scopre di essere un nulla rispetto al mondo che non sa proprio che farsene della sua “presenza” come della “vita culturale” e della “storia” umana.
La “presenza” collassa quando il mondo splende della sua radicale inumanità. Allora la “presenza” viene meno, e la sua stessa “catastrofe” – cioè la fine di un mondo culturale – svanisce nell’immensità priva di senso del mondo. De Martino definisce “angoscia” lo stato d’animo che corrisponde a questa condizione estrema:
L’angoscia si determina come reazione della presenza davanti al rischio di non poter oltrepassare i suoi contenuti critici, e di sentirsi avviata verso l’abdicazione suprema. Ciò equivale a dire che l’angoscia è il rischio di perdere la possibilità stessa di dispiegare l’energia formale dell’esserci. L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza umana, l’alienazione di sé a sé, il precipitare dalla cultura nella natura. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero e azione, fra rappresentazione e giudizio, fra vitalità e moralità: è il grido di chi sta in bilico sull’orlo dell’abisso. E poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente al divenire storico, e sta perdendo la potenza di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere correttamente interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non esserci in una storia umana (ivi, pp. 10-11).
La posta in gioco è esattamente questa “angoscia della storia”, ossia l’insopportabile scoperta che il mondo non dipende dalla “storia umana”, che il mondo non è nient’altro che questa assoluta indifferenza alla “distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero e azione, fra rappresentazione e giudizio, fra vitalità e moralità”. Nel mondo tutti questi dualismi collassano. L’angoscia è allora la condizione di chi si accorge, infine, di trovarsi “in bilico sull’orlo dell’abisso”.
Il tempo dell’Antropocene è appunto il tempo in cui la specie Homo sapiens ha infine maturato la consapevolezza che il progetto umanistico coincide ormai con il mondo stesso, che quella che chiama ancora “natura” non è altro che il prodotto di scarto dell’ininterrotto processo di produzione umano (in realtà nel mondo non c’è alcuna distinzione fra umano e naturale, come peraltro fra vivente e non vivente). È di fronte a questo scenario che possiamo immaginare un uso diverso della “angoscia” come minaccia della “crisi della presenza”. Per De Martino questa onnipresente minaccia, dal momento che la “presenza” non è mai acquisita in modo definitivo, va contrastata con l’operazione opposta della «reintegrazione» (ivi, p. 13), l’insieme di «tecniche magico-religiose» attraverso le quali «viene agevolata la ripresa» della “presenza” e vengono «ridischiuse quelle potenze operative secondo forme o valori, di cui la crisi aveva compromesso l’esercizio» (ivi, p. 13). L’angoscia segnala che la presenza è in crisi, e che quindi è necessario attivare il dispositivo “magico-rituale” per reintegrarla nella sua compiutezza.
Di fronte allo scenario dell’Antropocene si tratta ora, al contrario, di valorizzare l’angoscia non in quanto stato da superare, bensì come l’unica condizione in cui l’umano si rende conto che il progetto umanistico è giunto al termine. La posta in gioco è proprio quel mondo non umano che per De Martino deve sempre di nuovo essere riassorbito e plasmato dall’agire umano. In effetti per De Martino di fronte alla “presenza” viene meno ogni «problema di un essere-in-sé, indipendentemente da qualsiasi valorizzazione umana: questo preteso essere-in-sé, appena venga isolato dallo sforzo dell’uomo che lo fa essere in qualche modo, si tramuta in nulla (nel nulla del valore umano e quindi nel nulla tout court, perché nessun essere può mai essere raggiunto al di fuori della ragione valorizzante)» (ivi, p. 43).
È proprio di questo “nulla” che, invece, occorre imparare a fare esperienza, e vedere in esso non l’assenza dell’umano, piuttosto l’origine stessa del progetto umanistico. Si tratta, in sostanza, di rovesciare la gerarchia che privilegia la “presenza” come «star fuori dalla situazione» (ivi, p. 44) rispetto al mondo da cui, appunto, ci si tira via. Per De Martino «l’angoscia fa sentirsi “spaesato“, “non a casa propria”» (ivi, p. 53), allora l’unico sentimento che si può provare nel tempo dell’Antropocene è proprio questa angoscia che non smette di ricordarci che nel mondo non siamo come a “casa propria”. Si potrà uscire dall’Antropocene solo quando sarà questo il nostro sentimento rispetto al mondo. È solo in questa “catastrofe” che il soggetto umano potrà fare esperienza della propria caducità radicale. «Nell’angoscia», insiste De Martino, «il nulla avanza: non il nulla di questo o di quello, ma della stessa energia culturale qualificante» (ivi, p. 53); solo quando il progetto antropocenico si confronterà con questo “nulla”, solo allora il progetto umanistico potrà arrestarsi.
Ma in che modo, ammesso che una torsione del genere dell’umano verso il non umano sia possibile (ché l’umano coincide con lo stesso progetto umanistico), si configurerà il rapporto con questo “nulla”? Per De Martino, come abbiamo visto, la religione non rappresenta altro che una tecnica per reintegrare la “presenza” in crisi. Così, ad esempio, quando nel saggio citato più sopra cita – per discutere della vicinanza fra la “crisi della presenza” psicopatologica e quella religiosa – il celebre libro di Rudolf Otto sul sacro (1992), precisa subito, a scanso di equivoci, che «la problematica cominci per noi lì dove l’Otto ritiene di aver raggiunto l’ultima Thule, cioè l’esperienza viva del nume che è presente» (De Martino 2025, p. 13). Laddove per Otto il sacro si mostra, secondo la sua celebre formula, come il «radicalmente altro [ganz Andere]» (Otto 1992) rispetto all’umano, per De Martino questo “altro” è invece tutto umano e terreno, presentandosi come «il rischio “radicale“ di non esserci, l’alienazione che minaccia di avviarsi al suo esatto significato patologico, la catastrofe a cui la presenza è chiamata a resistere facendo appello a tutte le sue forze» (De Martino 2025, p. 14). Ma perché questa ostinata resistenza all’inumana potenza del mondo? Forse potremo uscire dall’Antropocene solo quando non solo smetteremo di considerare il mondo come “casa nostra”, soprattutto quando lo vedremo (o torneremo a vederlo) come qualcosa di terribile, come un “radicalmente altro”, cioè appunto come qualcosa di sacro.
Riferimenti bibliografici
P. Crutzen, The “Anthropocene”, in Earth System Science in the Anthropocene, a cura di E. Ehlers, T. Krafft, Springer, Berlino 2006.
E. De Martino, La storia velata. Crisi e riscatto della presenza, Einaudi, Torino 2025.
M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1976.
K. Helwegen, C. Wieners, J. Frank, H. Dijkstra, Complementing CO2 emission reduction by solar radiation management might strongly enhance future welfare, in Earth System Dynamics, 10 (3), 2019.
R. Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, Feltrinelli, Milano 1992.
N. Schwarz, C. Von Kolpinski, The potential of regenerated airports to evolve into innovation ecosystems and promote city resilience: The case of Berlin, in Sustainable Futures, 10, 2025.
B. Van Valkenburgh, Déjà vu: the evolution of feeding morphologies in the Carnivora, in Integr. Comp. Biol. 47, 2007.