Un padre è in primo luogo una istanza simbolica che garantisce l’accesso alla realtà. Individua un limite che mette il figlio in condizioni di superarlo e di desiderare il mondo. Ma se il padre elude il limite tutto rischia di tracimare. E allora è meglio che questo limite lo rappresenti altro, anche una cassa chiusa che contiene i resti di non si sa bene chi.
È quello che ci racconta La Caja. Hatzin è un adolescente di Città del Messico che si mette in viaggio per recuperare le spoglie del padre, seppellito in una fossa comune in pieno deserto. Dopo l’identificazione, gli viene consegnata una cassa con dentro i resti. Sulla strada del ritorno a casa, il ragazzo scende improvvisamente dal pullman e insegue un uomo che riconosce come suo padre e da cui pretende con grande perseveranza di essere riconosciuto.
La convinzione che l’uomo sia il padre vale indipendentemente dalla reale effettività della cosa. L’uomo continuerà a negare, almeno fino ad un certo punto, di esserlo. Il cuore del film è l’indecidibilità. E la macchina da presa si fa intercedere dallo sguardo del ragazzo, non accedendo a nessuna conoscenza ulteriore rispetto a quello che vediamo: un figlio che persevera, un uomo che nega, un insieme di elementi che non permettono di decidere conoscitivamente come stanno le cose.
La realtà non è un effetto di conoscenza ma di riconoscimento, di pretesa di riconoscimento, spesso di vera e propria lotta per il riconoscimento. E anche di riconoscimenti negati e mancati. Non sapremo mai, non ne avremo le prove, se quell’uomo sia veramente il padre. Ma sappiamo che la verità di quest’incontro si manifesta da un lato nella domanda impellente del ragazzo, e nella perseveranza nel corrispondervi, dall’altro nell’uso strumentale e nella manipolazione che l’uomo fa di questa stessa domanda.
L’ambivalenza ontologica della realtà in cui è immerso il personaggio di Hatzin si fa ambiguità quando viene rappresentata dall’uomo. Non siamo molto lontani da quell’ambivalenza ed opacità del reale che Bazin ritrovava in molti film neorealisti, dove anche non a caso in gioco c’erano dei bambini. Lo spettatore non sa nulla della realtà più di quanto ne sappiano i personaggi, e di questi ultimi sa solo ciò che mostrano, vero o finto che esso sia. Se il padre finge o non finge infatti non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Come non sappiamo se stia o meno manipolando il ragazzo, come quando gli mostra una neonata chiamandola “sorellina”, per assicurarsi della sua copertura rispetto a ciò che è accaduto.
Perché ciò che è accaduto è grave. Ci troviamo in una zona del Messico non ben identificata, dove globalizzazione neocapitalista, degrado ambientale e sfruttamento sociale si intrecciano. L’uomo, procacciatore di manodopera per attività imprenditoriali caratterizzate da sfruttamento ed abuso dei lavoratori, sta per aprire una fabbrica tessile. Gli servono operai, docili, sottopagati (perché la “concorrenza con la Cina è dura”) e attrezzature. Per fare questo, dapprima ruba un camion con delle macchine da cucire, e poi uccide una giovane operaia sindacalizzata seppellendola nel deserto, sotto gli occhi di Hatzin. Ecco chiarite le fosse comuni che vediamo all’inizio: sono operai scomodi quelli che scompaiono, che non si sa bene dove vadano a finire, per poi ritrovarne i resti sepolti nel nulla.
Qui vediamo il tentativo del ragazzo di “acquisire” il padre, mostrandogli fedeltà anche nelle operazioni più arrischiate. Fedeltà come testimone silente del seppellimento del corpo della ragazza, ma anche come complice nel furto del camion. Questo percorso arriva però ad un punto di non ritorno. Hatzin arriverà a proteggere l’uomo anche all’insaputa di questo. La madre della giovane operaia scomparsa la cerca ripetutamente in fabbrica e va alla polizia. Il ragazzo temendo che il padre possa essere scoperto la uccide. L’inclusione del padre, la sua protezione fino al compimento del crimine, portano il ragazzo in una zona franca, senza perimetro. Quel riconoscimento rivendicato, preteso, è fallito, perché il padre non sarà mai in grado di riconoscere nessuno ed usa strumentalmente tutti coloro che gli stanno intorno fino anche ad ucciderli. Farà di ogni domanda (di lavoro, di amore) l’occasione per uno sfruttamento.
Il ragazzo abbandonerà il “preteso” padre e tornerà a riprendersi la cassa con le spoglie. Scrigno chiuso che potrà svolgere la sua funzione nei confronti della sua crescita. Sceglierà di essere figlio di una delle tante vittime mai riconosciute dello sfruttamento e dell’abuso, piuttosto che del criminale. La funzione paterna può essere svolta da chiunque e da qualsiasi cosa. Mentre uomini in carne ed ossa possono costantemente misconoscerla, non fungere né da limiti né da esempio.
Il film mostra con grande forza una ricerca di riconoscimento che si fa misconoscimento, desertificando tutto (in un ambiente che ben gli corrisponde). Un mondo segnato da derive ambientali e sociali, il cui prezzo maggiore è pagato dai giovani: da chi chiede un padre e da chi vuole essere rispettato sul luogo di lavoro. La questione della paternità è un sintomo, molto presente nel cinema contemporaneo, di una crisi profonda del simbolico. Ma non è la cura. Da questa crisi si esce al di là del padre e provando a pensare e a vivere tra “fratelli”.
La Caja. Regia e sceneggiatura: Lorenzo Vigas; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Isabela Monteiro de Castro, Pablo Barbieri; scenografia: Daniela Schneider; costumi: Úrsula Schneider; interpreti: Hernán Mendoza, Hatzín Navarrete, Elián González, Cristina Zulueta, Dulce Alexa Alfaro, Graciela Beltrán; produzione: Teorema, SK Global Entertainment, Labodigital; origine: Messico, Usa; durata: 92′; anno: 2021.