“Non si può pensare a niente” è il detto che apre La moglie dell’aviatore (1981), il primo dei sei film che compongono la serie delle Commedie e proverbi, cui Rohmer si dedicherà nel corso degli anni ottanta. I personaggi che popolano il suo cinema vivono con un’irrequietezza indomabile un momento particolare della giornata e la loro personalissima “ora del lupo” può innescarsi durante un pomeriggio brumoso tra una pausa pranzo tardiva e il rientro in ufficio, in un’alba bluastra e silenziosa o, ancora, nel bel mezzo di un lussureggiante tramonto estivo o in una notte rischiarata dalla luna. In quel momento, in quello scarto infinitesimale, stiracchiato come se soggetto a ralenti, il mondo è risucchiato dalla rêverie di una mente inesausta e la finzione iperbolica, frutto di quella stessa mente, finisce quasi con il minacciare l’integrità del mondo “reale” che le immagini rohmeriane hanno presentato con equilibrio e nitore apollinei.

Nelle infinite declinazioni incompossibili del caso, sono presenti in Rohmer delle “in-varianti” – secondo un procedimento di «iterazione variata» (Tinazzi 1988, p. 523) – veri e propri marchi di fabbrica che caratterizzano il suo metodo. Se attraverso un’analisi è possibile ricondurre gli intrecci a uno schema logico rigoroso, come se si fosse dinnanzi a un assioma teorico da dimostrare (si pensi in particolare alle avventure sentimentali dei Racconti morali che rinfocoleranno il desiderio di stabilità dei personaggi), l’arte rohmeriana non è quella del freddo matematico, bensì quella di un forbito compositore che imbastisce molteplici variazioni su un tema – che, come in ambito musicale, lasciano ampio spazio all’improvvisazione polimorfa – creando opere inafferrabili nella loro “unicità seriale”, taglienti come il barattolo di vernice tempestato di lame che apre La collezionista (1967).

Rivedere Rohmer oggi significa ritornare, con un bagaglio ricolmo di illusioni perdute, a una catena di situazioni, dialoghi e inquadrature che rinserrano gli anelli di uno stile capace di congiungere classicismo empireo e modernità sfuggente. Ad esempio, si consideri sotto quest’ottica Il raggio verde (1986), uno dei più celebri titoli rohmeriani. La vicenda accorda che il ventaglio delle situazioni e dei luoghi a lui più cari trovi il modo di fare capolino: gli interni minimal delle chambres de bonne parigine; l’ufficio austero adatto a infondere concentrazione ma che nelle afose giornate lugliasche diventa una prigione; i cafés dove si consumano pasti frugali o nei quali ci si può imbattere in un conoscente che non si vede da tempo; i ritempranti parchi cittadini; la vegetazione rigogliosa animata dal vento; le montagne maestose; il mare solleticato dai capricci della marea.

Quegli stessi luoghi, inseparabili dalle situazioni, divengono casse di risonanza entro cui prendono forma le conversazioni. La ricerca di una meta vacanziera (e sentimentale) di Marie Rivière si stinge nella rigida architettura neoclassica che sembra rispondere e “ridimensionare” l’ossessione per l’ideale che la caratterizza. Allo stesso modo e a dispetto del più frequente pregiudizio dei detrattori di Rohmer, le conversazioni non si articolano quasi mai secondo la struttura del dialogo filosofico e, forse anche per via dell’influsso della letteratura libertina, è dal discorso più “svagato” che si arriva – a posteriori – all’astratto, al modello, a un universale inscindibile dall’individuo, ossia l’unico universale percepibile, quello di «un particolare cosciente della propria orientazione verso l’universale» (Rosenzweig 2005, p. 48).

Così, se il “fare niente per ore” si presenta come un piano non solo predisposto ma persino esplicitato (da Adrien ne La collezionista, da Marion in Pauline alla spiaggia, 1982) la forma cinematografica creerà un contrappunto fatto di attese e preludi ad azioni che talvolta avranno luogo fuori dal quadro o nello scarto tra uno stacco di montaggio e l’altro. La non volontà e l’inazione possono essere spie di un eccesso d’azione interiore che porta i personaggi a fare dei progetti immaginativi, perdendosi in convinzioni aprioristiche proprie di chi si crede padrone del destino e che dovranno necessariamente scontrarsi con il principio di realtà. «Quale mente non divaga? Chi non fa castelli in aria?» è del resto la programmatica citazione di La Fontaine in esergo a Il bel matrimonio (1982). Questi personaggi sono dei flanêurs che errano tra due o più luoghi – geografici e mentali – che si configurano come epicentri (Andrew 2014) alla ricerca del loro centro – del mondo e dell’inquadratura –, come il flaubertiano Frédéric de L’amore il pomeriggio (1972) che, appena prima di rimanere intrappolato nello specchio delle proprie proiezioni mentali, si allontana dal vortice della passione (la tromba delle scale) e contempla per qualche istante lo spazio vuoto che separa il suo volto da quello della moglie per poi sancire il rimatrimonio.

Ne consegue che la messinscena e la composizione dell’inquadratura amplificano tali rapporti, disarcionando la demarcazione netta di campo e fuori campo, parola e visualizzazione, narrazione e mostrazione, giusto e sbagliato, vero e falso, documentazione e astrazione. L’inquadratura di Rohmer parte dal visibile, dal classicismo che non intende perdere di vista la forma oggettiva, benché non tardi a sopraggiungere la spinta romantica – di cui spesso si fanno conduttori i personaggi – tesa ad accentuare l’emozione soggettiva. Dichiarando che è «molto più interessante suscitare l’invisibile partendo dal visibile piuttosto che tentare, invano, di visualizzare l’invisibile» (Zappoli 1996, p. 5), Rohmer esplicita la propria prassi cinematografica, volta a filmare in maniera trasparente ciò che è opaco, la vita stessa. Pertanto, se Rivette soggiorna nell’“angle du hasard”, Rohmer propende per il disegno, predisponendo il perimetro entro cui il caso potrà (o meno) manifestarsi.

Da qui la sua modernità, strettamente connessa alla disinvoltura con la quale il caso fa irruzione nei suoi film, caso che tuttavia ha le sue abitudini, come si dice in Un ragazzo, tre ragazze (1996). Come nel cinema di Rossellini, la vena “documentaristica” rohmeriana resta sottotraccia in relazione alla linea trainante della finzione, per poi emergere dal profondo, come l’inopinato getto di una solfatara o l’eruzione di un vulcano. Rohmer, folgorato sulla via di Damasco, riparte da Stromboli (1950) e conia «una particolare forma di finzione basata sulla dialettica perpetua di naturale e artificiale: una situazione in principio inverosimile che si rivelerà più vera del verosimile» (Hasumi 2001).

Questa modulazione, al contempo impercettibile e macroscopica, permette un’infinità di variazioni, tanto quando il cineasta predilige la qualità fotografica dell’immagine, quanto nel caso in cui propenda per la sua qualità pittorica. Ad esempio nei film storici, come già rilevato da Deleuze, anche se lo spazio è in un primo momento appiattito, il cineasta trova il modo di curvarlo. Per lo stesso motivo i personaggi de Il fuorilegge (1978) possono parlare di sé in terza persona e muoversi in un ambiente tanto geometrico quanto astratto e, ancora, ne La nobildonna e il duca (2001), il boudoir, nettamente delimitato dagli elementi d’arredo, assume le caratteristiche di un microcosmo, un’oasi-miraggio in cui la Rivoluzione pare restare fuori.

Assieme ai personaggi, è l’intero universo filmico rohmeriano a farsi trovare pronto per l’incontro e cogliere quell’istante in cui il confine tra rivelazione e sceltaetica ed esteticatrascolora. Tale rivelazione potrà difficilmente avere luogo in mezzo al trambusto parigino, a meno che non si disponga di un talismano (L’amore il pomeriggio) o non ci si lasci commuovere dai meravigliosi giochi del teatro (Racconto d’inverno, 1992). Ecco perché l’estate è la stagione prediletta: durante le vacanze la noia perde le sue qualità negative e riscopre le radici che la legano al noûs e vi si abbandona, rendendo possibile acquisire la «capacità illuminante di cogliere il raggio verde nell’apparente insignificanza del quotidiano» (Tinazzi 1988, p. 528).

Rivedere Rohmer oggi significa reimparare ad essere osservatori senza dimenticare la parzialità del proprio sguardo, irriducibilmente mancante, ma capace di aprire il più ampio degli orizzonti. Significa osservare l’arte dell’«affabulazione realizzante» (Vidal 1977, p. 127) intenta a plasmare non soltanto il racconto, ma a farsi percezione storica, attraverso cui il mondano meccanismo cinematografico non smette di costruire finzioni per guardare a quella realtà – impossibile da introdurre tramite una marca di enunciazione – che non si potrà mai conoscere né possedere e che, per quanto sia per certi versi fonte primaria d’angoscia, è in verità l’impronta della nostra libertà. Rivedere Rohmer oggi significa osservare la sua presenza vibratile rifrangersi e fare capolino in un’inquadratura di quegli autori contemporanei più audaci che non temono la realtà, e che anzi vi si accostano per mostrare come essa faccia resistenza a uno di quei Don Chisciotte (Il ginocchio di Claire, 1970) che credono di poterla (o di doverla) piegare alla propria volontà.

Riferimenti bibliografici
D. Andrew, Eric Rohmer’s Magnetic Fluid, in L. Anderst, a cura di, The Films of Eric Rohmer. French New Wave to Old Master, Palgrave Macmillan, London 2014. 
M. Grosoli, Moral Tales from Korea. Hong Sang-soo and Eric Rohmer, in Acta Universitatis Sapientiae, Film and Media Studies, 3 (2010). 
S. Hasumi, Eric Rohmer ou L’habitude du hasard, La Biennale di Venezia – Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica: Seminario “Eric Rohmer, cineasta”, 6 settembre 2001.
K. Karatani, Transcritique. On Kant and Marx, The MIT Press, Cambridge 2003.
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005.
G. Tinazzi, Ritratti critici di contemporanei. Eric Rohmer, in Belfagor, 5 (1988). 
M. Vidal, Les contes moraux d’Éric Rohmer, Lherminier, Paris 1977.
G. Zappoli, Eric Rohmer, Il Castoro, Milano 1996.

Eric Rohmer, Tulle 1920-Parigi 2010. 

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