Un lungo discorso funebre nel ricordo di una donna dalla vita virtuosa conclude Monrovia, Indiana. L’officiante, in abiti laici, usa parole d’occasione, il suo discorso è lungo. Il punto di vista della macchina da presa nella chiesa, collocato a distanza dal prete, è fisso, statico. Nonostante questo, noi rimaniamo lì, catturati da ciò che vediamo e sentiamo. Così come lo siamo rimasti per tutto il film, non breve di Wiseman. Perché? Che cosa ci colpisce e ci attrae in questa scena, come nelle precedenti, altrettanto ordinarie e dunque senza elementi significativi?
Scene che riguardano l’asta per la vendita di trebbiatrici, la mostra d’auto d’epoca, l’impacchettamento della carne in un supermercato, una seduta di loggia massonica, il taglio della coda di un cane dal veterinario, le infinite ipnotiche discussioni nell’assemblea comunale sulla collocazione di una panchina di fronte alla biblioteca. E poi paesaggi, campi coltivati, il frusciare del vento, immagini che non prendono mai l’inclinazione del pittoresco. La macchina da presa è nelle situazioni senza che la si percepisca, è in una prossimità distante, che permette di riportare il tratto allo stesso tempo dinamico e rituale di azioni e parole.
La posta in gioco è più radicale di quanto sembri. Wiseman non documenta semplicemente ciò che accade, perché ciò che accade ha i tratti di una esistenza senza particolare rilievo se non quello di essere tale. Esistenza e null’altro, segnata da ritualità. Esemplare il dialogo al bar tra due uomini su un comune amico morto da poco. Un dialogo che sigilla in forma ordinaria il ciclo dell’esistenza: la morte e la nascita. Ma più la morte anonima che la nascita. Quest’ultima è un evento, irruzione di un nuovo nella situazione, mentre la prima è un contro-evento, lo scomparire naturale e ciclico di ciò che è presente e vivo.
La vita ordinaria, la vita senza rilievo, la vita che deposita nelle sue pratiche e nei suoi discorsi minimi il senso dell’esistenza, è una vita orizzontale, segnata dalla comune appartenenza ad una condizione umana e sociale che non fa emergere gerarchie. C’è il piatto delle distese di campi, quello dei discorsi, quello delle pratiche: ma tutto questo nel film assume uno straordinario rilievo. Perché quel piatto è la forma di espressione della vita stessa, che si afferma in quanto tale, senza necessità di trascendersi in alcunché. Una vita che si spinge verso un tratto di impersonalità. O meglio, verso il tratto che contrassegna e identifica la democrazia americana.
Wiseman è il cantore cinematografico de La democrazia in America. Dice Tocqueville “L’esperienza, i costumi e l’istruzione finiscono quasi sempre col creare nella democrazia quella specie di saggezza pratica quotidiana e quella scienza delle piccole vicende della vita che si chiama buon senso” (p. 244). È il buon senso depositato nelle pratiche ordinarie di una piccola comunità agricola dell’Indiana. Non a caso agricola, perché con l’agricoltura e il suo insediamento territoriale si fondano e si consolidano i costumi: “La civiltà è il lungo lavorio sociale che si svolge in uno stesso luogo e che le varie generazioni, nel loro succedersi, si trasmettono l’una all’altra. […] Per civilizzarsi bisogna diventare in sostanza agricoltori” (pp. 347-348).
L’identificazione di un luogo, Monrovia, porta con sé quello di una pratica dominante, agricoltura, e della profondità temporale che l’ha plasmata. L’insieme contribuisce a definire il “buon senso democratico” di una comunità, la condivisione orizzontale di un comune destino. L’America agricola di Monrovia, Indiana è distante da quella del West e della Frontiera, dall’epopea di conquista e dalla smania di successo. Distante anche dalla violenza ferale e seriale, o anche solo psicologica, inscritta nel quotidiano nero o ottuso, che molto cinema americano di ambientazione extra-urbana ci racconta. E distante ancora dal sentimento rancoroso e rivendicativo dell’America trumpiana delle periferie urbane.
Ma è anche lontana, a suo modo, dal grande dispositivo delle pratiche e dei discorsi di una democrazia inclusiva, urbana e letterata, come quella del film precedente di Wiseman, Ex-Libris (2017), sulla New York Public Library. Lì in gioco erano le pratiche diffuse di inclusione democratica che passavano attraverso i libri e le differenti sedi di una istituzione culturale prestigiosa. In Monrovia, Indiana quelle pratiche non servono: l’inclusione è un dato di fatto nel perimetro circoscritto di un piccolo paese. Il contesto geograficamente limitato seleziona e governa le forme quotidiane di vita attraverso il tempo della tradizione.
Ma tutto questo non ci riconsegna un’America abbrutita e annoiata, tutt’altro. Vediamo un’America orizzontale e democratica, che lo sguardo mai giudicante di Wiseman ci restituisce, come un vero cantore, in forma limpida. Cantore di un mondo ordinario, segnato da pratiche antiche, ricorsive e rituali che, orientate dal buon senso, scorrono lungo un solco che sottrae il soggetto a eccessive responsabilità e scelte, i cui effetti sono sempre – particolarmente in America e nel suo cinema – segnati da violenza.
L’immagine della vita orizzontale e democratica, ordinaria e banale, è al fondo l’immagine di una condizione esistenziale vicina al tratto impersonale della vita. Nella banale discussione su dove collocare una panchina emerge dunque l’importanza del senso del riposo, del sostare, dello stare insieme in un luogo in cui tutti si conoscono e riconoscono, in cui tutti al fondo sono uguali, nella piccola comunità che popolano e nella comune condizione transitoria dello stare al mondo. Per questo, il film si chiude su una sepoltura non come evento drammatico, ma come un congedo naturale da una persona amata e rispettata, che rientra nel ciclo della vita.
Monrovia, Indiana è dunque molto più di un documentario su una zona degli Stati Uniti, e Wiseman molto più di un semplice documentarista. Il film è il racconto poetico, attraverso il qui ed ora di un luogo e di un tempo, della condizione umana generale, che il “buon senso” depositato nelle pratiche e nei discorsi ordinari di un piccolo paese democratico (del grande Paese), è in grado di comprendere meglio di altri (sensi nascosti, segreti ecc.). È questo che colpisce e stupisce lo spettatore, che lo tiene immobilizzato alla sedia a vedere il “nulla” che accade sullo schermo. In quel nulla c’è parte del segreto della nostra possibile felicità.
Riferimenti bibliografici
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.