L’avvicinamento all’opera d’arte richiede pazienza ed esercizio. Acclimatarsi al suo habitat lontano dal tran-tran, introdursi ai misteri cui sembra alludere il suo fascino: ecco, non si tratta di una scampagnata. Nemmeno per l’artista, il più esperto cacciatore d’opera. Le ore di studio, le trovate e gli scorni, non sono ancora nulla in confronto all’instabile equilibrio tra distanza e prossimità dove l’opera viene catturata per la prima volta (sempre di nuovo). L’artista ingaggia qui uno strambo corpo a corpo tra mano e idea: la mano produce l’idea che guida la mano. E poi all’inverso, in una vertigine inarrestabile. Michaux l’ha detta un «orribile dentro e fuori che è il vero spazio» (Blanchot 2015, p. 392), premettendo che è impossibile per “noi”, goffi turisti del safari in savana, concepire questo spazio. Si capisce: dove il concepire è arduo, lo è anche l’esperienza. E tormentosa. Ci s’immagini una battuta di caccia dove preda e cacciatore si scambiano di continuo. Chi tende l’agguato è stanato, chi fugge insegue, chi azzanna è mangiato… Un tale tormento è, del resto, più o meno consapevole e più o meno sopportabile: la tempra d’artista varia dal temerario all’assai pavido. Anche quello navigato, dinanzi alla ferocia della propria arte, alle volte impallidisce, indietreggia, demorde, intestardisce, s’arrovella, s’inorgoglisce, e così via. Capita che, in stati di terrore e semicoscienza, i tormenti si trascrivano, spesso in linguaggi insoliti all’artista, come a seconda di un momentaneo ghiribizzo.

La Collezione Ramo si è consacrata a uno di questi fragili linguaggi dell’intermezzo con la passione delicata del collezionista di farfalle. Fondata da Giuseppe Rabolini e affidata a Irina Zucca Alessandrelli, la Collezione è stata parzialmente esposta a Milano dal 23 Novembre 2018 al 24 Febbraio (e sarà esposta alla Estorick Collection di Londra dal 17 Aprile al 23 Giugno 2019). In concomitanza della mostra “Chi ha paura del disegno?” è stato pubblicato il catalogo di tutte le opere possedute. Ma Disegno italiano del XX secolo è molto più di un semplice catalogo. Il volume si propone di dimostrare «l’importanza storica e originalità dei movimenti artistici» italiani del secolo scorso ripensandoli «attraverso il disegno inteso come opera su carta in senso ampio», con l’obiettivo di «formare una cultura del disegno che ancora non esiste» (Alessandrelli 2018, p. 13). A ciò si volgono i primi tre quarti del libro dove si trovano numerose riproduzioni dei disegni più significativi, incorniciate e illustrate da testi storico-critici.

La macrostruttura del testo mantiene un andamento cronologico attraverso una ripartizione in tre blocchi (Primo novecento; Seconda guerra mondiale e dintorni; Ventennio ’60-’80), ma vi si interpongono paragrafi dedicati a studi di genere, indagini tematiche, saggi monografici sul singolo autore. Questa composizione ha il pregio di deviare l’andamento lineare della ricostruzione e di amplificare l’effetto straniante di una prospettiva centrata sul disegno: il respiro storico inizia a singhiozzare e spezza la voce ad alcune etichette frettolose e alle stereotipie critiche che provengono dai privilegi tradizionalmente concessi a dipinto e scultura. Se il valore di un’opera dipende dall’originalità della sua idea, dall’unicità dello stile e dall’autenticità durevole della firma, allora come valutare il disegno, la cui materia è fragile, lo stile anonimo e l’idea estemporanea?

Nell’introduzione al catalogo si afferma che i disegni hanno valore perché sono «la prima forma dell’idea generata nella mente dell’artista»; essi ci mostrano «il modo di ragionare di un artista e le sue intenzioni», attraverso «una pratica intima» di «dialogo con se stessi e le proprie idee» «di grande immediatezza e non filtrata, in vista del pubblico e del mercato». L’argomento si conclude con una massima: «Un disegno non si corregge ed è inizialmente concepito per un solo spettatore: l’artista stesso», che però si contraddice soltanto una riga dopo, dove si afferma: «Molti disegni sono stati concepiti opere d’arte finite» (Alessandrelli 2018, p. 13). Questi primi passi incerti del testo suscitano un senso di turbamento. Ma come? Si voleva svecchiare una concezione storica legata all’opera e si ricade nella soggettività dell’artista creatore? Eppure, l’organizzazione tematico-stilistica della mostra sembrava ben insinuare la poca importanza dell’istanza autoriale: gli spazi espostivi, dai titoli interrogativi (ad es. “Astrattismi?”), esibivano, una accanto all’altra, opere di autori vari, di epoche diverse, indicando in tal modo lo spazio di indecidibilità e contingenza che il disegno introduce.

Eppur è così: l’elegante volume s’avvia incespicando nei ciottoli del concetto. È spiacevole vederlo dibattersi tra opposizioni irrigidite (sincero/artefatto, intimo/pubblico, preparatorio/compiuto) fino a giungere all’altezza della coppia artista/opera – ultimo approdo delle attribuzioni di valore estetico – per incoronare l’artista. Se la rivalorizzazione del disegno esige che esso non venga valutato in funzione dell’unicità dell’opera, non vuol dire che la sua giustificazione teoretica vada ricercata in un altro principio d’unità e immediatezza come il preteso “Io penso” d’artista. Non si dice artista qualcuno per le sue intenzioni. L’artista delle belle pensate semplicemente non è un artista. Volendo essere artista, dovrebbe pur esser(si) proclamato tale e, così facendo, essere costretto a fare opera persino del suo essere scioperato. Se dunque l’opera è un momento imprescindibile per fare dell’artista un vero artista, non è però detto che il vero artista debba, o voglia, essere sempre lo stesso e che sia obbligato a restare fedele a sé o a perseguire in eterno quell’unica idea. Potranno ben pattuirsi momenti di tregua dalle enormi pretese che impone il rapporto con l’opera. Si potrà riprendere fiato e ritracciare la rotta. Sarà pur concesso d’imbarcarsi in un’avventura. O forse non era – non è – l’opera stessa un’avventura verso l’opera?

I linguaggi dell’intermezzo lambiscono la questione del molteplice irriducibile, del non riconducibile a uno. Insolubile “incoincidenza” di vita e idea. Dunque, chi ha paura del disegno? Il monoteista; è ovvio! Il disegno è infatti politeista per vocazione: non ha alcun fondamento se non le divinità volatili di cui è devoto traditore nel tempo. Se un disegno va perso, se ne fa un altro; si regalano, si stracciano, i disegni, come un tessuto di coriandoli tra un’opera e l’altra. Durante la presentazione del libro al teatro Franco Parenti, questa natura aleatoria è stata colta con un’arguzia. Invitato a “raccontare” alcuni disegni della Collezione, Luca Scarlini ha illustrato le vicende biografiche e le occasioni accumulate intorno alle carte di Tancredi, Baruchello, Salvo, Boetti, Cagnaccio di San Pietro e altri. Alla fine dell’intervento, Alessandrelli gli ha chiesto in che modo avesse selezionato i disegni per ottenere una restituzione così coerente e intrecciata. La risposta di Scarlini, sorniona quanto perfetta, è stata: “Li ho scelti con l’I King“.

Disegno italiano del XX secolo balza al di là delle sue barcollanti premesse concettuali grazie alla premurosa dedizione verso il proprio oggetto. È per amore che il libro condivide l’entusiasmo avventuroso dei disegni. Una passione che lascia margine alle voci degli autori. Quasi sentiamo il borbottio di Melotti, diffidente verso chi non lascia tracce di sviamento nel suo rapporto con l’opera: «Quando mi dicono che un artista non sa disegnare, io dubito molto di lui. Uno che non sa esprimersi col disegno vuol dire che ha poco da dire. Nel disegno vive il segno, il segno è l’essenza dell’artista. […] Bisogna lavorare molto per far vivere il segno, fa parte della trasformazione della materia» (Alessandrelli 2018, p. 156). Il rovescio di questo vivificare compare nelle riflessioni di Castellani sulle proprie devozioni quotidiane, sui segni di una vita:

Una metodologia di lavoro finisce per combaciare quanto più possibile con il proprio esistere, il proprio modo di vivere, si viene quasi plasmati dal proprio pensiero, dalle proprie azioni che finiscono per corrisponderci in maniera naturale, fisiologica. […] Questa ripetizione dell’atto produttivo e riproduttivo del proprio lavoro, non è la metafora del proprio essere, ma finisce per essere parte della propria esistenza. Per questo non provo alcuna discrepanza o alcun imbarazzo nel continuare pressoché invariato il mio lavoro (ivi, p. 213).

Quasi all’estremo opposto si aprono gli spazi vertiginosi che perforano i pensieri di Consagra: «Quando si progetta, il foglio rimane rigido, fissato per una necessità prestabilita e si scivola alla ricerca di una chiarificazione del tema. Si rincorre la soluzione. […] Io voglio parlare del disegno senza soluzione, quello che si realizza man mano che appare tracciato in una fisionomia organica […]. Il disegno è una responsabilità che non desiste mai. […] Ho disegnato sempre per sentirmi carico di possibilità, di aperture al sentimento e all’oggetto»; anche in Consagra riaffiora il tema della vitalità: «Mi piace un disegno vivo come la forza di un cavallo da tiro: mi piace la fase dello spostamento verso il mito del finito che mi sgomenta e mi attrae. La mia scultura è legata al disegno per restare con la possibilità di tornare indietro» (ivi, p. 148).

Il finale dell’ottava elegia di Rilke sembra destinarsi a questo impossibile desiderio di ritorno nell’intermezzo, nel non ancora determinato come uno, verso il molteplice delle forme vive, nelle istantanee strappate ai linguaggi del non-ancora-in-opera. «Come/chi sull’ultimo colle, che la sua valle intera gli mostra/ ancora una volta, si volta, s’arresta, indugia –/ così viviamo noi, e sempre prendiamo congedo». A valle la vita, a monte l’opera; tra i due, l’indecisione e l’avventura, in cui ancora non sono, né l’una né l’altra; spazio totale in cui l’una e l’altra insieme precipitano, prima di darsi addio nella separazione. Richiede grande coraggio arrestarsi in questo indugiare sospeso e incerto prima dell’opera (della morte); un indulgere severo alle contingenze di una vita per l’opera: il coraggio di divenire un disegno tra gli altri.

Riferimenti bibliografici
M. Blanchot, La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», Einaudi, Torino 2015.
I. Zucca Alessandrelli, a cura di, Disegno italiano del XX secolo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2018.

*In copertina Matti – Due contro uno, Tancredi, 1960. 

Share