Che Giorgio Agamben torni a riflettere sul rapporto tra la potenza e l’atto non sorprenderà di certo gli addetti ai lavori, non solo per la ricorrenza che il tema ha nel suo pensiero, ma anche perché è l’assunto stesso di ogni ricerca archeologica a ricordarci che non dovremmo aspettarci «né un nuovo inizio né tanto meno una conclusione» (Agamben 2014, p. 9). D’altronde, tutto il progetto di Homo sacer è attraversato dall’esigenza metafisica di disattivare il dispositivo aristotelico che scinde l’essere nella dicotomia di potenza e atto, al fine di opporsi a una certa ontologia dell’operatività e del comando (cfr. Agamben 2012), che pensa l’essere come qualcosa che, affinché sia, deve innanzitutto realizzare se stesso.
È nuovamente da qui che Agamben riparte con il suo ultimo testo, L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia (Einaudi, 2022). Se finora le figure dell’inoperosità e del gesto gli hanno consentito di ripensare il transito dalla potenza all’atto come un passaggio che non distrugge né esaurisce la potenza ma la conserva nell’atto come potenza-di-non, adesso è su questo stesso passaggio che Agamben si concentra. L’obiettivo si fa ancor più radicale: pensare una coincidenza dell’atto e della potenza – così come della realtà e della possibilità o dell’esistenza e dell’essenza – significa mettere in discussione il darsi stesso del transito dall’una all’altro, ovvero riuscire nel tentativo di ricomporre la scissione di quelle categorie sorte come effetti della «macchina ontologica dell’Occidente», che trova la sua origine precisamente in Aristotele. Fare questo vuol dire innanzitutto operare sul rapporto che lega questi termini separati, nella misura in cui si dà relazione solo dove c’è frattura tra due elementi che non si identificano.
In questo senso, la mossa principale di Agamben consiste nel ricostruire alcuni dei tentativi che, nel corso della storia della filosofia, hanno fallito nel colmare la scissione. Il luogo in cui è stata principalmente affrontata questa impresa è l’argomento ontologico, che si propone di dimostrare l’esistenza di Dio pensando in lui una coincidenza di possibilità e realtà. La falla di sistemi come quello di Anselmo, Tommaso o Duns Scoto sta nella strategia che li orienta: «La coincidenza di possibilità e esistenza serve, in realtà, nella stessa misura a fondare la loro divisione nelle creature» (Agamben 2022, p. 44). Ma è in Leibniz che questo tentativo raggiunge la sua massima contraddittorietà: lo sforzo di colmare la scissione non fa che esacerbare e complicare la relazione tra le due categorie, nel momento in cui il possibile stesso inizia a essere pensato come una forza tesa alla propria realizzazione. In fondo, sembrano solo due le alternative che si prospettano di fronte a un problema simile: o i due termini sono assolutamente separati l’uno dall’altro, oppure la relazione tra i due deve darsi nella forma di un passaggio. Se nel primo caso, come in Kant, la frattura diviene definitivamente insanabile, il secondo la risolve in modo fallimentare: «La scissione su cui la macchina fonda il suo prestigio è, tuttavia, tutt’altro che pacifica. Perché la macchina possa funzionare, le due parti che essa ha separato devono essere articolate nuovamente insieme, in modo che proprio il loro armonico conflitto o la loro discorde consonanza ne costituisca l’arcano motore» (ivi, p. 60). D’altra parte, l’origine del fallimento è espressa dalla tesi principe che guida il testo: il passaggio da una potenza a un atto, in realtà, non si dà affatto. Nonostante ciò, realizzazione è il nome con cui questo transitus mirabilis è stato inteso.
A confermarlo è l’archeologia che Agamben compie delle nozioni di res e realitas. Se, da un lato, è solo l’operazione medievale di trasferimento della nozione già esistente di res nella sfera ontologica a produrre le scissioni della macchina occidentale, dall’altro lato il concetto più tardivo di realitas ha, già nel suo nascere, il senso non di una realtà che fa tutt’uno con l’essere, quanto di un processo di realizzazione. «Il primo effetto della scissione della cosa del pensiero è che tutta la realtà si trasforma in una realizzazione, l’essere stesso non è che un processo in cui un possibile viene incessantemente realizzato» (ivi, p. 33). Opporsi a questo paradigma significa affermare non solo l’inesistenza ma anche l’impossibilità di ogni realizzazione, ovvero di ogni passaggio dalla potenza all’atto, e la ragione di ciò riposa in una constatazione incontrovertibile: il possibile è già reale e, per questo, irrealizzabile. È interessante notare che, per Agamben, sia già in Aristotele che, paradossalmente, troviamo il tentativo di ricomporre quella scissione dell’essere, posta nelle Categorie, attraverso il ti en einai, il «che cos’era essere», della Metafisica: «Se il sub-ietto primo era stato pre-supposto come ciò che sta a fondamento di ogni discorso, esso potrà essere afferrato nella sua verità solo come un passato, solo attraverso il tempo» (ivi, p. 67). E non è un caso che questa operazione venga assimilata a quella che compirà poi il Bergson de Il possibile e il reale: poiché il possibile non è che una proiezione del reale nel passato, «potenza e atto si generano insieme, sono cooriginarie e l’errore non consiste tanto nella loro distinzione, quanto nel pensare che la potenza preesista separatamente» (ivi, p. 70).
Pensare una teoria della possibilità sottratta ai presupposti della macchina ontologica dell’Occidente risponde, in fin dei conti, a due esigenze politiche ben precise. La prima è la stessa che sta alla base dell’opposizione a ogni dispositivo del comando, frutto del suo legame con un’ontologia dell’operatività: «Una realtà scissa in una possibilità irreale e in una effettività ogni volta da realizzare si presta al controllo e alla manipolazione» (ivi, p. 85). Dall’altro lato, la Soglia che apre il libro si interroga su una questione cruciale: com’è possibile che una realizzazione sia anche abolizione di sé? Ora sappiamo rispondere: la realizzazione non è che negazione della realtà. Piuttosto si tratterà di pensare una realtà che sia non il risultato di una realizzazione, ma un attributo dell’essere. È in questa prospettiva che occorre intendere il problema platonico del modo in cui la filosofia possa realizzarsi nella politica: «La filosofia non deve cercare di realizzarsi nella politica: se vuole che le due potenze coincidano e che il re diventi filosofo, essa deve, al contrario, farsi ogni volta custode della propria irrealizzabilità» (ivi, p. 12). È questa, dunque, la sua potenza destituente.
Si tratta, infine, di capire su che cosa si possa fondare una teoria della possibilità irrealizzabile. Il secondo testo che compone il libro, L’antica selva. Chora Spazio Materia, ci fornisce gli strumenti per comprendere la soluzione che Agamben adotterà nella conclusione del primo. La lunga analisi si interroga sulla modalità di conoscenza da riservare alla chora platonica, il terzo genere dell’essere che sta tra l’intellegibile e il sensibile. Se il primo genere si percepisce con la sensazione, e il secondo senza, «la chora contrae l’uno sull’altro i due modi di conoscenza e si percepisce per così dire con un’assenza di sensazione. […] La conoscenza della chora è bastarda, perché fa esperienza non di una realtà intellegibile né di un oggetto sensibile, ma della propria stessa ricettività, patisce la propria anestesia» (ivi, p. 107). La chora non semplicemente mette in relazione il sensibile e l’intellegibile, ma diviene quel tertium nella forma di un dove che fornisce a entrambi la loro conoscibilità. Da questo rapporto risulta un quarto, esemplificato dalla figura platonica del dio sensibile, ovvero «l’intellegibile sensibile e il sensibile intellegibile, cioè la cosa nel medio della sua conoscibilità» (ivi, p. 123). È questa medialità della chora, ovvero il luogo in cui intellegibile e sensibile coincidono, che permette ad Agamben non solo di definire il possibile, ma anche di ammettere che quella politica di cui il sottotitolo annuncia la realtà non può essere nulla di diverso da una chorologia.
Se è con Spinoza che il nostro archeologo può effettivamente pensare una potenza già reale, sottratta a un improbabile passaggio all’atto, è la simbiosi del Platone del Timeo e del Kant dell’Opus postumum a consentirgli di dare contenuto a questo possibile irrealizzabile, che si presenta «come l’esperienza di un soggetto affetto dalla sua stessa ricettività» (ivi, p. 84). Definire la potenza come «visione di una pura visibilità, conoscenza di una pura conoscibilità» (ivi, p. 85) significa disattivare il suo rapporto con un oggetto corrispondente per ripensare la realtà dell’ente nella medialità della sua esibizione.
Possiamo forse dire che l’irrealizzabile non sia che irreparabile. Uno dei lasciti più potenti de La comunità che viene sembra infatti esprimere alla perfezione la natura reale del possibile: «Che le cose siano così come sono, in questo o quel modo, consegnate senza rimedio alla loro maniera di essere» (Agamben 2001, p. 73). Del resto, un’ontologia modale, che intende l’essere nel suo come, è sempre «un’ontologia mediale» (Agamben 2014, p. 215). La potenza, che «può ciò che è e è ciò che può» (Agamben 2022, p. 85), è finalmente ricondotta allo statuto modale di un’affezione, di cui un soggetto non può più disporre come farebbe con una facoltà per mezzo della sua volontà.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
Id., Opus dei. Archeologia dell’ufficio, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
Id., L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014.
Giorgio Agamben, L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia, Einaudi, Torino 2022.