Tutto il cinema di Orson Welles è questione di personaggi e di punti di vista (fissi e mobili) della macchina da presa. Ed è a questi che la storia è subordinata. Subordinazione che è uno dei grandi contrassegni della modernità cinematografica, di cui Welles incarna esemplarmente la linea americana.
Esistono personaggi che discendono da un intreccio e personaggi da cui invece gli intrecci derivano. I primi non sono quasi mai rilevanti, i secondi si stagliano all’orizzonte e gettano luce. […] Il ruolo decisivo del personaggio nei film di Welles è testimoniato anche dal fatto che sono sempre interpretati da lui stesso: attore, regista (e sceneggiatore) allo stesso tempo. La zona di intercessione tra personaggio e autore si fa più fitta. Ciò che è in gioco è un certo rilievo del personaggio, che rappresenta e manifesta qualcosa che non può essere contenuto dall’intreccio e dalla sua capacità di sintesi.
C’è sempre un conflitto tra personaggio ed intreccio, che è un conflitto tra forza e forma, tra ontologia e logica. Il personaggio è sempre un modo d’essere e questo non può essere contenuto in una logica ed in una storia, quando è originale ed in rilievo. Soprattutto, un modo d’essere si traduce in atti, qualcosa che eccede il tratto compiuto dell’azione che dà vita ad un intreccio.
Quelli di Quinlan sono atti, che fanno trasparire una verità soggettiva (intuita) e non vere azioni. Falsificare per far corrispondere la realtà ad una verità intuita identifica l’operato di un “genio del male”. L’intuizione è il contrassegno della genialità e la falsificazione delle prove quello della colpevolezza. […] Quinlan e Vargas sono un binomio, un doppio che si specchia ribaltandosi […]. Quinlan l’americano porta con sé il tratto “torbido” del messicano fuorilegge, Vargas il messicano quello apparentemente “trasparente” dell’uomo middle class americano.
La frontiera è nei personaggi stessi elemento reversibile ed attraversabile in entrambi i sensi, anche perché in fondo non identificabile. Il film è ambientato al confine tra Stati Uniti e Messico (elemento nuovo rispetto al romanzo da cui è tratto, che ambientava tutto in California), ma questa frontiera è inassegnabile. I personaggi passano e ripassano, ma quel confine è interno e riguarda una sorta di condizione ontologica ed etica del personaggio stesso.
Se gli Stati Uniti rappresentano il perimetro di un’azione civile sotto il segno della legge, e il Messico il procedere ardito al di fuori di una cornice di legalità, qui le cose si ribaltano. Il messicano è il più anodinamente asservito al rispetto delle norme e ad una narcisistica sovraesposizione verso l’assunzione di responsabilità (anche a costo di trascurare la sposa), l’americano è il più spudoratamente audace, adotta un comportamento riprovevole, ma è capace di cogliere la verità. Il confine mobile ed inassegnabile tra il bene e il male è in fondo il confine indecidibile dell’umano: confine plastico, modulabile, non sottoponibile a perimetri formali o morali. È il confine aperto e non vigilato, quello tra Stati Uniti e Messico, di cui parla Vargas alla moglie.
Quinlan è di certo socialmente colpevole, ma la sua ossessione per la verità, intuita e non dimostrata né dimostrabile (se non attraverso falsificazioni), definisce il “carattere” che si è forgiato su una ferita che si rialimenta periodicamente: la morte della moglie […]. C’è una grandiosità dei personaggi wellesiani “al di sopra della legge”, l’imporsi di una forza non addomesticabile, che coglie la verità come fissazione e vincolo inesorabile ad un passato dal quale non ci si libera e al quale si ritorna fino a morirne. Il “male” in Quinlan deriva dal vedere e dall’intuire che il circuito della vita è inseparabile da quello della morte, così come il vero dal falso.
Ma c’è un’altra verità che a noi interessa, incarnata da Quinlan nel suo contrapporsi a Vargas, che evidenzia la contrapposizione tra due modi di essere e dunque due tipologie di personaggi, gli idealisti e i truffatori […]. L’idealista e il truffatore, l’uomo dabbene e il riprovevole, il “bianco” e il “nero” (per dirla con Deleuze): il primo è forse meno innocente di quanto si creda, immolato ad una idealità che nasconde di fatto un’adesione narcisisticamente totalizzante al ruolo; e il secondo è forse meno colpevole di quanto la morale del personaggio anodino e “per bene” non gli conceda. Quinlan è un truffatore, certo, ma ha catturato solo colpevoli […]. Ma soprattutto Quinlan è qualcuno che non è riuscito a suturare le ferite del tempo (che il suono della pianola di Tanya riattiva), non è riuscito ad addomesticare i dolori nei quali è precipitato. In questo Quinlan è semplicemente umano, e rispetto alla sua umanità non giudicabile.
Deleuze ha ragione quando evidenzia il tratto nicciano del cinema di Welles, il suo prescindere dal sistema del giudizio. L’infernale Quinlan è un contrasto tra personaggi, perché è un contrasto tra forze: una forza tutta umana, eccessiva, malinconica, socialmente riprovevole quella di Quinlan, e una forza addomesticata dalla legge, che prende la forma del giudizio in base a valori che trascendono la vita (onestà, rispettabilità, matrimonio e soda), quella incarnata da Vargas. L’uno senza l’altro non potrebbero sostenersi, ma se l’uno è sicuramente colpevole, l’altro non è innocente.
È il partenariato tra l’idealista imbecille (Vargas) e il mascalzone (Quinlan): si sostengono vicendevolmente, senza trovare argine nella cornice narrativa, che non ha capacità di contenere nulla e deborda sotto la pressione di personaggi che sono altrettante forze. […] Oltre i due, l’imbecille e l’impostore, c’è il traditore, colui che si sottrae a fin di bene alla complicità con il male, cioè Menzies. E tradendo, e morendo per questo tradimento (per la giustizia come dice), consente l’accesso ad una verità non più soggettiva, malata ed onnipotente, ma oggettiva e registrata. […] Nel carattere la forza emerge ma si immobilizza, non è capace di modularsi né di generare (è la malattia dello scorpione che punge la rana anche se questo lo farà morire, perché così è la sua “natura”, come ci dice Arkadin).
In Welles come nella grande tradizione letteraria e filosofica americana c’è al fondo una messa in questione radicale della forma dell’azione, attraverso una saldatura tra modo d’essere e carattere, tra ontologia e forze. In gioco è proprio l’esprimersi potente di una forza – anche distruttiva – che si manifesta in atti che non lasciano alternative e che dunque non sono azioni frutto di scelte. E che allo stesso tempo definiscono una traiettoria ma anche la sua inesorabilità: espressione di una soggettività che torna sempre a sé, catturata dalla sua “malattia”.
Nella malattia c’è una forma perversa di vita che precipita nella morte. Il punto sarà come convertire questa forza statica in una dinamica e creativa. Sarà compito dell’entrata in scena nell’ultimo Welles dell’artista stesso. E in questo caso (a partire da F for fake, 1973, fino al postumo The Other Side of the Wind, 2018), il “falso” diventa il necessario medium non per catturare colpevoli ma per creare una verità al di là del bene e del male. Come trasformare la tracotanza ossessiva del potere nella generosità della potenza artistica? Questa è la domanda posta dall’ultimo Welles, questa è in fondo la domanda che una potente tradizione americana ci ha riconsegnato. La domanda di un divenire di forze che eccede la storicità delle forme: «Non esiste altra verità che la creazione del Nuovo: la creatività, l’apparizione improvvisa, ciò che Melville chiama “shape” in opposizione a “form”» (Deleuze 1989, p. 172).
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989.
L’infernale Quinlan (Touch of Evil). Regia: Orson Welles; sceneggiatura: Orson Welles; fotografia: Russell Metty; montaggio: Virgil W. Vogel, Aaron Stell, Edward Curtiss,Walter Murch; musiche: Henry Mancini; interpreti: Orson Welles, Charlton Heston, Janet Leigh, Joseph Calleia, Akim Tamiroff, Joanna Moore, Ray Collins, Marlene Dietrich, Valentin de Vargas, Victor Millan, Joseph Cotten, Mort Mills, Lalo Rios, Dennis Weaver, Zsa Zsa Gabor; produzione: Universal; distribuzione: Universal; origine: Stati Uniti d’America; durata: 96′.
∗ Estratto dal numero 40 di “Fata Morgana” dedicato a Stati Uniti d’America (in corso di stampa).