L’11 settembre 2001 è senz’altro uno spartiacque nella comprensione delle immagini nel contesto di una comunicazione sempre più globalizzata: lo ha ricordato su queste pagine Mauro Carbone. L’attentato alle Twin Towers segna l’ingresso in un’epoca post-storica della politica. Vilém Flusser conia il concetto di post-storia per spiegare le trasformazioni occorse nel campo della comunicazione con l’avvento dei media telematici: la fotografia, il cinema e poi in modo compiuto la televisione e internet. L’11 settembre rientra a pieno titolo all’interno di questo processo, nella misura in cui si tratta di un evento pensato per essere in diretta televisiva, che ha avuto una diffusione virale attraverso la rete. Nella post-storia le immagini riacquistano un ruolo egemone rispetto alla scrittura nell’elaborazione dell’informazione. La scrittura promuove la linearità, spingendo a concepire il tempo come una linea in continua progressione. La centralità delle immagini rompe tale linearità e vi sostituisce un modello basato sulla circolazione dell’informazione in reti. La diffusione virale di immagini fa dell’11 settembre un vero e proprio caso esemplare di comunicazione post-storica. È in virtù di questa esemplarità, forse più ancora che per la sua valenza simbolica o per la sua importanza politica, che questo evento ha continuato a occupare la nostra interrogazione sul senso del tempo presente. Ecco tre cose che ho capito sulle immagini post-storiche in seguito all’11 settembre 2001.
Si può solo fallire meglio
L’attacco alle Twin Towers a Manhattan, nel centro economico dell’Occidente capitalista, è stato un trauma profondo. Milioni di persone hanno potuto assistere in diretta televisiva al crollo dei due grattacieli che dominavano Wall Street, il distretto finanziario di New York. È stato il primo grande choc collettivo (negativo) dallo choc (positivo) del 1989, quando il crollo del Muro di Berlino avviò il processo di democratizzazione dell’Europa orientale. La ferita è stata così profonda che è difficile non ricordare dove si era quando sullo schermo è apparsa l’immagine dello schianto degli aerei. Non a caso 11’09’’01 – September 11 (2002), il film a episodi sull’attentato firmato da undici registi da tutto il mondo, insiste sul convergere di luoghi, condizioni e situazioni diverse nell’unicità del momento. L’11 settembre gode dell’aura dell’hic et nunc, ma rovescia la prospettiva moderna sull’essenza dell’evento. Profondamente storicista, la modernità pensa eventi ed epoche come temporalizzazioni di spazi geografici. Così il Medio Oriente che fa i conti con il progresso occidentale è una grande civiltà che deve però avere ancora il suo illuminismo. L’epoca post-storica invece spazializza il tempo: per tutti l’11 settembre è l’attentato a Manhattan. Si può opporre solo una spazializzazione alternativa a quella dominante: nel film citato l’episodio diretto da Ken Loach si concentra sull’11 settembre 1973, giorno del golpe di Pinochet in Cile. L’epoca post-storica sostituisce luoghi iconici di eventi globali alle date simboliche di svolte storiche. L’individuo post-storico può dire di sé: Je suis Charlie Hebdo, anzi #jesuischarliehebdo.
Venendo meno l’idea di progresso, l’evento e l’immagine esemplare vivono in uno stato di pura singolarità. Le immagini dell’11 settembre e, pochi mesi prima, della distruzione dei Buddha di Bamiyan, danno fondo a tutta l’efficacia iconica del terrore. Tutto ciò che viene dopo non è altro che speculazione parassitaria sul loro patrimonio simbolico: terroristi solitari e fai da te, video di torture, violenze, profanazioni e stragi contro persone inermi (Abu Ghraib, Guantanamo, Daesh in Siria, l’esibizione dell’immagine del cadavere di Bin Laden), distruzione o profanazione di simboli (velamento della statua di Saddam Hussein, distruzioni di reperti archeologici). L’11 settembre rovescia il paradigma moderno del rapporto tra immagini e potere, formalizzato da Louis Marin: la rappresentazione non è più messa in riserva ma dissipazione della forza nei segni. Il terrore è una forza che ha un alto tasso di replicazione. Nell’epoca post-storica, però, le repliche sono copie difettose: comunicare significa fallire meglio, cioè sfruttare riserve simboliche di senso fino al loro esaurimento. Il messaggio mancherà comunque l’obiettivo di assoggettare completamente il destinatario: l’assuefazione indica paradossalmente una soglia di resistenza insuperabile.
Il nomadismo è la regola
La nuova situazione comunicativa scompagina le usuali coordinate spazio-temporali; inoltre abbassa la fiducia nelle fonti autorevoli come le fonti scritte. Nel mondo della comunicazione orizzontale gli eventi si impongono per la loro singolarità e hanno valore fin tanto che dura il loro effetto. Ma fin tanto che dura l’effetto, lo choc provocato dall’immagine è potente. Per limitarne i danni, il destinatario del messaggio deve mettere in atto una strategia farmacologica, volta a trasformare il processo di assuefazione in un processo di immunizzazione. A tale scopo quella che Pietro Montani chiama “immaginazione intermediale” si rivela un’alleata preziosa: è sottoponendo l’immagine traumatizzante a processi di rielaborazione e di riconfigurazione attraverso diversi media che si arriva a trasformare il suo potenziale tossico in un principio terapeutico. Il nomadismo intermediale è la regola della comunicazione post-storica: si deve migrare di continuo da un medium a un altro per curare la “salute” dell’ambiente mediale in cui viviamo. L’emergere di soggettività politiche, l’affermazione di istanze sociali o il successo di progetti culturali dipendono dalla creatività con cui si sperimentano nuovi canali mediatici. La contropartita è data dal fatto che l’autorevolezza della fonte smentisce una fonte precedente. L’atteggiamento estetico in cui fiorisce questo spirito è l’ironia satirica che demolisce l’icona di successo. Questo atteggiamento ha trovato un ideale terreno di esercizio nella manipolazione dell’immagine del capo di Al Qaeda, Osama Bin Laden: ne è un esempio la vignetta in cui il volto di Osama viene sostituito a quello dello Zio Sam e allo slogan I want you! viene aggiunta la postilla To invade Iraq!. Siamo all’epoca dell’invasione dell’Iraq da parte degli USA: la vignetta suggerisce un’intesa segreta tra l’amministrazione repubblicana di George W. Bush e il presunto nemico terrorista.
Interpretare non basta
L’immagine post-storica è plurale, cangiante, perfino contraddittoria: l’interpretazione, vale a dire la sua riduzione a una tipologia di rappresentazione, non soddisfa più il nostro desiderio di comprensione. Dispersa nel flusso delle reti, l’immagine si fa così mobile da finire per corrispondere con l’immaginazione che la produce. L’immagine post-storica è un processo creativo permanente. Guardare sullo schermo l’evento dell’11 settembre significa chiedersi tutto ciò che quell’immagine ha generato o potrà generare. Prima ancora che rappresentazione rivolta a uno spettatore, l’immagine post-storica è parte di una partita che vede impegnati diversi giocatori nel campo della comunicazione globale. Di conseguenza essa non è in prima istanza dialogica, bensì discorsiva: in altre parole, non istituisce un rapporto esclusivo con un interprete, ma si rivolge a una moltitudine di interlocutori, senza tuttavia escludere la possibilità che uno di loro si dimostri abbastanza creativo da immaginare una risposta al messaggio ricevuto. Quello che ne emerge non è un dialogo a due: è piuttosto un war game, in cui ogni giocatore si sforza di indovinare la strategia dell’altro e con ciò stesso inventa una propria strategia d’attacco. Le immagini post-storiche sono impegnate in una lotta tra diverse rappresentazioni del mondo.
Ma lo scontro non è frontale, se non in rari momenti di condensazione del flusso di informazioni: Occidente versus Oriente, Islam versus Cristianesimo, Liberismo versus Capitalismo di Stato. La guerra delle immagini è policentrica, disperde energia: la sua tendenza entropica può essere arrestata solo dall’ingresso in campo di un nuovo giocatore. Solo così si può avere speranza che le immagini, e con esse le nostre vite, non restino rinchiuse nel quadrato autoreferenziale dello schermo: la comunicazione non avviene al suo interno, ma tra schermi che si agganciano l’uno con l’altro. In questo gioco di connessioni casuali può accadere che un collegamento crei un’interfaccia più potente delle altre, imprimendo così una nuova direzione al flusso di informazioni. È così che usciamo oggi da uno scenario di crisi per entrare in un altro. È così che siamo passati dal binomio terrorismo/democrazia a quello progressismo/populismo, seguendo l’andamento a spirale della comunicazione globale. Non ci dovremo stupire allora se un giorno dovessimo vedere i governi occidentali discutere sulla guerra alla pandemia con un governo talebano in Afghanistan. Viviamo nell’epoca dei Big Dada.
Riferimenti bibliografici
V. Flusser, Immagini, Fazi, Roma 2009.
L. Marin, Della rappresentazione, Mimesis, Milano 2014.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.