Due eventi
La metafora della guerra è un diffusissimo organizzatore di discorsi intorno al SARS-CoV-2. I governi se ne servono continuamente. Così i media. È una metafora buona per chiamare alle armi, e una chiamata alle armi serviva e si è realizzata. Ma molto di quel che non funziona, in questa chiamata, dipende dal fatto che la situazione che ci capita di vivere non è una situazione di guerra.
Del resto, da tempo che la metafora della guerra funziona male, anche nelle situazioni che essa sembrerebbe descrivere più fedelmente. In questo senso, l’evento SARS-CoV-2 è un evento che ha mobilitato tutta una serie di eventi e tendenze che attraversavano il nostro mondo da lungo tempo. Almeno da quando un altro grande evento aveva fatto irruzione nel nostro orizzonte, presentandosi come l’innesco di una guerra che si sottraeva per larghi tratti alle movenze della guerra così come l’avevamo conosciuta. Alludo all’evento dell’11 settembre 2001.
Paranoia e immanenza
Anche allora qualcosa che era dell’ordine della minaccia era stato catalogato come l’azione di un nemico ed era stato fatto oggetto di una dichiarazione di guerra. Ma ciò che ne era seguito era stato qualcosa di molto diverso da uno scontro bellico. Dato che non c’era un nemico esterno, un antagonista che facesse blocco, un’identità contro cui schierarsi, si era dovuto procedere molto diversamente. Si erano individuati i terreni di coltura della minaccia terroristica, gli ambienti in cui certi soggetti si radicalizzavano, le reti che consentivano la circolazione di propaganda, informazioni, istruzioni. Si era dovuto procedere lateralmente anziché frontalmente. Si era agito su ambienti anziché su individui, e in modo simile a come agiscono gli ambienti anziché gli individui.
L’opposizione amico/nemico, che Carl Schmitt ha indicato come la chiave di volta di ogni guerra e la divisione segreta intorno a cui si struttura quella prosecuzione della guerra con altri mezzi che sarebbe la politica, aveva ceduto il passo a una geometria di tutt’altro genere. Dato che mancava un nemico contro il quale ci potessimo compattare costituendoci come amici, il territorio del nemico aveva finito per coincidere con l’intera superficie di quello amico. C’era un solo campo, ormai. Non privo di differenziazioni, ma solcato da articolazioni di natura tutt’altro che oppositiva. Nessuna dialettica tra amici e nemici, ma qualcosa come un sistema di gradazioni d’intensità e di innervamenti lungo i quali variava un solo e unico parametro, indefinibile in termini di amicizia o inimicizia.
Se in quel regno di simulacri era diventato quasi impossibile decidere chi fosse amico e chi nemico, questo non accadeva perché il mascheramento avesse raggiunto chissà quali inediti livelli di virtuosismo. Il gioco delle maschere proseguiva anzi immutato, ma in assenza di un presupposto antico e collaudato. Cioè che dietro le maschere ci fossero dei volti, delle identità chiaramente assegnabili all’uno o all’altro territorio. Al vecchio sistema dualista amico/nemico si era sostituito il sistema monista della paranoia. Tutti erano spie potenziali, tutti erano potenzialmente spiati. Ciascuno era un punto in perpetuo movimento lungo il continuum della sospettabilità. E la paranoia è la struttura stessa dell’intelligenza, oltre che di quella cosa più specifica che non casualmente si chiama intelligence.
Sugli ospedali e le città, la salute e la malattia
Non è qualcosa che sta accadendo di nuovo, su un terreno diversissimo ma secondo movenze simili? Sotto la pressione dell’evento CoV-2, una sanità tutta centrata sugli ospedali si sta ridisseminando sul territorio. Al momento gli ospedali sembrano essere relativamente decongestionati. Ma questo non avviene perché i malati bisognosi di ospedalizzazione siano diminuiti di numero. Al contrario, gli ospedalizzati sono diminuiti di numero perché gli ospedali sono stati decongestionati grazie a una diversa logica d’intervento.
Solo sintomi gravi, si diceva, potevano giustificare l’accesso a una complessa procedura di monitoraggio e poi di trattamento ospedaliero. Altrimenti, gli ospedali si sarebbero intasati e i pochi posti di terapia intensiva si sarebbero rapidamente esauriti. Dunque, netta opposizione tra le tante case e i pochi ospedali, tra il luogo di un’attesa senza cure e il luogo di una cura in ogni senso intensiva. Principio schmittiano, benché trasferito a tutt’altro genere di scontro.
La strategia successiva non è stata centralizzatrice ma virale. Il luogo delle cure si è diffuso, l’ospedale è come fuoriuscito dal suo perimetro, tenderà a coincidere con l’intero tessuto cittadino. Il monitoraggio del paziente, si è iniziato a dire, deve iniziare molto prima che i sintomi diventino tanto gravi da richiedere l’ospedalizzazione. E anche l’ospedalizzazione deve iniziare molto prima che le cure domestiche diventino insufficienti. Si è lavorato non sul virus ma sulle reti e sugli ambienti della trasmissione del virus. Noi stessi, i nostri corpi, gli oggetti di cui ci serviamo, i luoghi che frequentiamo, l’aria che respiriamo.
Isoliamo lo schema di questa nuova logica. Non troviamo più una netta opposizione tra le case e l’ospedale, tra chi sta bene e chi sta male. L’idea è quella di una diffusione delle cure sull’intera superficie della città, di una viralità delle procedure di gestione del virus. Da un altro punto di vista, tutto questo non comporta più una netta opposizione tra una condizione di salute magari relativa e minacciata, e una condizione di malattia conclamata e magari irrecuperabile. Il sistema prevede che le due condizioni sconfinino in ogni punto l’una nell’altra. La salute viene a coincidere sempre più strettamente col monitoraggio incessante di una malattia che potrà essere latente, ma che di fatto è assunta come lo stato di default di un qualsiasi organismo. A sua volta la malattia conclamata si ritrova implicitamente definita come lo stato limite di quella condizione di salute, non come tutt’altra cosa dalla salute. In altri termini, non c’è propriamente salute, e neppure c’è propriamente malattia. C’è l’incessante monitoraggio di un’unica fluttuazione inassegnabile.
Sugli eventi e le somiglianze tra eventi
È casuale questa risonanza tra due grandi eventi del nostro tempo? Per rispondere ci si deve forse interrogare su che cos’è un evento in generale. Se il CoV-2 è un grande evento, è perché imprime una potente accelerazione a un’infinità di altri eventi in corso. Li aggrega intorno a sé, li porta a un punto di massima risonanza, li innalza a una specie di improvvisa trasparenza.
Del resto, quell’evento che chiamiamo CoV-2 è già in sé un aggregato. Non ci sarebbe alcun evento CoV-2 senza un insieme di premesse assolutamente eterogenee, che a un certo punto precipitano in un’efficacia comune e irresistibile. Servono microscopi elettronici perché ci siano i virus, o almeno perché inizino a esistere dentro quel livello dell’esperienza che non è solo quello nel quale ci ammaliamo, ma quello nel quale ci mettiamo a cercare le cause di una malattia e le relative contromisure. Servono poi premesse ancora più lontane per pensare che costruire un microscopio è possibile e sensato, ad esempio un insieme di teorie e di pratiche che suggeriscono che certi fenomeni visibili possono avere cause invisibili. E ancora, serve un sistema di scambi economici locali e globali dalla struttura peculiare, che offra al virus un circuito molto allargato rispetto a quello a cui era destinato inizialmente. Servono i famosi wet market, e poi aeroporti che spostino ogni giorno milioni di persone da un punto all’altro del pianeta, infine culture nelle quali nessuno pensa di doversi fermare quando si ammala, e dunque nessuno nega al virus il veicolo ideale per diffondersi ulteriormente.
Il CoV-2 fa corpo con tutte queste cose. Non è semplicemente un oggetto che sta dentro questi diversissimi contenitori. Ogni evento è fatto di nient’altro che di altri eventi. Ogni evento è un punto di coordinamento di innumerevoli altri processi in cammino. È un concatenamento che inscrive nella propria logica la logica di infiniti altri concatenamenti di natura diversissima, scientifici ed economici, politici e psicologici, e non solo umani ma animali, vegetali, minerali, come potremmo dire se non fosse evidente che è ancora sempre l’umano a nominare queste differenze, a crederle così evidenti e obiettive.
È quanto dire che ogni evento riconfigura gli eventi da cui sembra essere stato prefigurato, estrae dal vago limbo delle virtualità qualcosa che fa funzionare come un insieme di precise condizioni di possibilità, costruisce i suoi antecedenti a propria immagine e somiglianza. È un punto sottile dal punto di vista teorico e decisivo dal quello pratico. Se dovessimo trarre da tutto questo una lezione, infatti, sarebbe che è urgente costruire una scienza degli eventi e dei concatenamenti. Di quell’oggetto che è l’evento così come lo abbiamo appena descritto, l’evento in quanto dotato di questa mirabile capacità di inanellare nella propria direzione una congerie di altri eventi nessuno dei quali è davvero ciò che è, fino a quell’istante magico in cui quel concatenamento lo coopta nel proprio campo di gravitazione, non esiste infatti scienza.
Una scienza di concatenamenti
Certo, abbiamo saperi parziali, che studiano i wet market oppure i microscopi elettronici, le infezioni oppure la mappa dei nostri viaggi globali. Abbiamo l’economia, l’infettivologia, la logistica. Ma non si tratta solo del fatto che queste discipline devono imparare a cooperare, che l’economia deve tenere conto dell’infettivologia, o l’infettivologia della logistica. Il punto è che nessuno di quegli oggetti esiste davvero. È un punto sconcertante, un passaggio insopportabile. Ma è anche un passaggio inaggirabile.
Nessuno di quegli oggetti esiste davvero. Ciascuno di quegli oggetti è semplicemente la faccia illuminata di un oggetto più ampio e sfuggente. Nessuno di quegli oggetti funziona come crede lo specialista deputato. Ciascuno di quegli oggetti è l’ombra cinese proiettata sul muro dello specialismo da un evento che ha luogo altrove, e che non è un virus, non è un mercato di animali, non è un aeroporto, non è un sistema immunitario. È il complesso del concatenamento a far accadere gli elementi del concatenamento. È l’evento CoV-2 a disegnare in quelle linee già in corso le linee che sembreranno correre da sempre verso di lui. Ogni evento è un fuoco che disegna in altri eventi la benzina di cui brucerà.
Così, fino a quando non sapremo maneggiare questo salto mortale attraverso cui un evento estrae da un insieme di circostanze virtuali il reticolo delle proprie condizioni di possibilità, facendole precipitare istantaneamente nel regime della necessità e della coordinazione più implacabile, non avremo strumenti con cui maneggiare un simile oggetto senza volto. Fino a quando non avremo una scienza dei concatenamenti, che non si limita a pensare il concatenamento come l’assemblaggio di oggetti o condizioni già date, ma che pensa il concatenamento come la creazione in un certo senso ex nihilo di quelle condizioni, non avremo strumenti con cui maneggiare quella soglia sulla quale ci troviamo.
Quale soglia? Quella che il virus ci sta mostrando. Quella di un concatenamento assolutamente inedito dell’umano, delle cose, dei dispositivi di verità, degli animali che vivono all’altro capo del mondo, del clima che cambia e dei supermercati sotto casa. Struttura assolutamente specifica che questo concatenamento porta con sé. Struttura che porta alla massima immanenza quella congerie di elementi eterogenei. Che li fa filtrare gli uni negli altri, che li prolunga ciascuno al cuore di ciascun altro, facendone un blocco, là dove altri eventi avevano disegnato dialettiche, facendone un ambiente che innerva altri ambienti fino ai confini del mondo, là dove altri eventi disegnavano gerarchie, umanismi, confini, ripari. L’universo disegnato dall’evento Cov-2 è un paesaggio sfrenatamente monista, è un esperimento immanentista come non si era mai visto sulla faccia della terra. È qualcosa che dobbiamo imparare a capire. Qualcosa per il quale dobbiamo iniziare a costruire una scienza specifica, una scienza nuova.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia 2, Orthotes, Napoli 2017.
I. Illich, Per una storia dei bisogni, Mondadori, Milano 1981.
B. Latour, Enquête sur les modes d’existence. Une anthropologie des modernes, Éditions De La Découverte, Paris 2012.
C. Schmitt, Sul concetto di politica, Mimesis, Milano 2019.
C. Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, Milano 1996.