Come molti pensatori pragmatisti, John Dewey non è un filosofo “puro”. Charles S. Peirce elabora un’originale semiotica ante litteram. William James, oltre che filosofo, è stato uno degli psicologi più innovativi del suo tempo e non solo. Nel caso di Dewey, l’alleanza tra riflessione filosofica e sapere scientifico va sotto il segno dell’educazione. In nessuno dei casi sopraddetti si tratta di eclettismo: ne va di una visione della filosofia che vede nei contesti sociali e culturali — oggi diremmo: nelle “forme di vita” — il punto di partenza della riflessione filosofica. Tali contesti si presentano al filosofo attraverso le diverse forme del sapere, scientifico e umanistico, che producono. La produttività di un “sistema filosofico” si gioca dunque nella triangolazione tra forme della vita, forme del sapere e forme della riflessione. Solo un vecchio pregiudizio europeo ha potuto vedere nel primo movimento filosofico americano la promozione accademica di un atteggiamento pratico, una sorta di filosofia dell’”uomo della strada”. I pragmatisti, Dewey in particolare, si sono sforzati a ripensare l’eredità della filosofia moderna, riportando, per usare categorie hegeliane, lo spirito assoluto, cioè la forma più avanzata del pensiero, allo spirito oggettivo, cioè alla forma generale del vivere associato.
Nel caso di Dewey questa connessione si realizza attraverso una riconsiderazione del valore filosofico dell’educazione. Se parlo di riconsiderazione è perché già prima di Dewey l’educazione è stata messa al centro di un progetto filosofico e segnatamente estetico. Ma esaminiamo innanzitutto l’attualità del suo pensiero educativo. Come pedagogista, Dewey è considerato di solito come l’inventore della formula del learning by doing, dell’apprendimento realizzato in chiave non teoretica, attraverso il fare. È una modalità di apprendimento più originaria rispetto alla distinzione, di recente riproposta, tra apprendimento “simbolico-ricostruttivo” e apprendimento “senso-motorio”. Il learning by doing non riguarda solo le forme del saper-fare tecnico: si ipotizza che ogni conoscenza chiami in causa, direttamente o indirettamente, l’impegno del soggetto in un’esperienza. Tutto il sapere implica un’esperienza: di conseguenza, nessuna forma di vita propriamente umana, comprese quelle in cui la scienza gioca un ruolo determinante, può “sospendere” il corpo nella sua effettualità. Più radicalmente, proprio perché il soggetto è umano in quanto acquisisce conoscenze attraverso apprendimento ed esperienza, il corpo umano può essere pensato come medium dell’apprendimento e istanza di riferimento dell’intera architettura del sapere: il corpo umano è misura di tutte le cose, si direbbe parafrasando Protagora.
Notevole è il fatto che uno dei luoghi eminenti di esibizione di tale impostazione filosofico-pedagogica sia l’educazione estetica. Questo tratto mette Dewey in un rapporto implicito ma non del tutto infondato con Schiller: le Lettere sull’educazione estetica (1794) sono uno dei pochi classici dell’estetica moderna che Dewey giudica positivamente e di cui, a differenza della Critica della facoltà di giudizio (1790) di Kant, non ha una conoscenza di seconda mano. Riflettendo sull’educazione artistica, tanto Dewey quanto Schiller non si limitano a teorizzare la tecnica pedagogica più adeguata. Dewey in particolare ragiona su due questioni: come l’arte fornisca un modello di apprendimento (e di esperienza); come l’educazione artistica riproponga in termini originali la questione dell’esemplarità dell’arte.
Quanto alla prima questione, le classi d’arte offrono un modello di cooperazione tra docente e allievo, ripensati come master e apprentice, come maestro (di bottega) e apprendista. Non è un modello educativo limitato all’arte, ma può essere esteso ad altri campi. In effetti, e vengo alla seconda questione, l’esemplarità dell’opera d’arte — il fatto che essa fornisce una regola di giudizio, come se istituisse nella sua singolarità una nuova classe di significato — emerge nel modo più trasparente quando il maestro offre l’opera alla libera rielaborazione dell’allievo. Di conseguenza, il modello artistico non prende forma unilateralmente nell’opera del maestro offerta all’imitazione dell’allievo, ma sta piuttosto tra il lavoro del maestro e la rielaborazione dell’allievo. Non è un caso se Umberto Eco veda in Dewey un precursore del suo concetto di “opera aperta”. Più puntualmente, si può dire che per lui l’opera d’arte vada pensata piuttosto come processo e progetto, trovando perciò la sua forma eminente nell’architettura e oggi in tutte le pratiche artistiche intermediali e cooperative. Per questa ragione, l’educazione estetica fornisce il fondamento teoretico dei processi educativi in genere: esibisce l’azione di un’intelligenza sensibile o sensibilità intelligente, cioè del felice accordo tra una mente incarnata e di un saper-fare incorporato.
Guardando alla situazione emergenziale della DAD, viene da chiedersi se sia possibile a queste condizioni attivare l’azione di un’intelligenza sensibile, ovvero se ci si sia interrogati a sufficienza su quali condizioni siano necessarie per riprodurla in una comunicazione a distanza. Inevitabile è il confronto tra questo protocollo e le alternative proposte ma non considerate. Tra le soluzioni ipotizzate per ovviare all’insufficienza di spazio nelle scuole, si era suggerito di riconvertire temporaneamente gli spazi museali in aule. A quel che posso comprendere, non si sarebbe trattato semplicemente di evitare assembramenti ma di riorganizzare i moduli d’insegnamento. Una lezione di storia o di storia dell’arte, svolta in un museo, a contatto con i documenti del sapere trasmesso, invece che in un’aula, avrebbe indotto l’insegnante a coinvolgere gli studenti in un’attività di interrogazione del documento come momento di generazione o di verifica della conoscenza. Il docente avrebbe così trattato gli studenti come studiosi inquadrati in un programma di ricerca. Non c’è dubbio che la ricettività e la risposta creativa della classe ne sarebbero risultate accresciute.
Non voglio dire che tale possibilità sia preclusa in linea di principio alla piattaforma digitale, com’è stato peraltro autorevolmente sostenuto da Gino Roncaglia. Il punto è che, usata come mera “stanza sostitutiva” dell’aula scolastica, la piattaforma digitale, irrigidendo l’interazione verbale tra docente e allievo, accentua il carattere dottrinario dell’insegnamento, a scapito della partecipazione degli studenti. È mancata la consapevolezza che la tecnologia è produttiva di senso quando non è usata come uno “strumento impassibile”, ma quando diventa nelle mani di chi la usa un processo creativo. E non è stata sentita, di conseguenza, l’esigenza di avviare la formazione dei docenti al linguaggio digitale, alla sua capacità di coniugare in maniera inedita oralità, scrittura e immagini allo scopo di incentivare una diversa forma di comunicazione interattiva. L’internet educativo avrebbe potuto essere una nuova “finestra albertiana” affacciata sul paesaggio dell’esperienza da fare; ha finito per riprodurre virtualmente la distanza verticale tra la cattedra sul piedistallo e i banchi di sotto.
Riferimenti bibliografici
F. Antinucci, Parola e immagine: storia di due tecnologie, Laterza, Roma-Bari 2011.
U. Eco, Opera aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 1962.
J. Dewey, Esperienza e educazione, Raffaello Cortina, Milano 2014.
J. Dewey, Individualità ed esperienza, in Esperienza, natura e arte, Mimesis, Milano 2014.
P. Montani, Emozioni dell’intelligenza: un percorso nel sensorio digitale, Meltemi, Milano 2020.
G. Roncaglia, L’età della frammentazione: cultura del libro e scuola digitale, Laterza, Roma-Bari 2018.
F. Schiller, L’educazione estetica, Aesthetica, Palermo 2005.