«L’occhio» scriveva Jacques Lacan in un breve testo del 1961 dedicato a Maurice Merleau-Ponty, «è fatto proprio per non vedere» (Lacan 2013, p. 183). L’occhio, ovviamente, vede, tuttavia questo non vuol dire che sia fatto per vedere, nel senso usuale del verbo “vedere”. Il vedere, nella nostra tradizione, è il gesto sovrano attraverso cui il corpo del soggetto percettivo prende possesso del mondo; infatti, nella vista l’umano “abbraccia” con lo sguardo il campo del visibile che si offre a lui in tutta la sua estensione. Così lo spettacolo del mondo è l’oggetto che corrisponde al soggetto che lo contempla. Da notare che la posizione del soggetto dello sguardo è esterna rispetto a ciò che sta osservando, come se occupasse da una posizione privilegiata (secondo il Dizionario online Treccani vedere significa appunto “percepire stimoli esterni per mezzo della funzione visiva”). Chi vede è nel mondo, ma come se, in fondo, non ne facesse parte in senso proprio. C’è il mondo, e c’è chi lo vede, il soggetto.
Questo radicale dualismo produce, tuttavia, un effetto inaspettato, e forse è proprio riferendosi a questo effetto che Lacan può sostenere che l’occhio non è fatto per vedere: siccome l’occhio che guarda non ritiene di fare parte del mondo che sta osservando, ne segue che quello stesso occhio, alla fine, non riesce a partecipare veramente a ciò che vede: quest’occhio sovrano finisce per essere un occhio disattento perché troppo lontano da ciò che sta vedendo. Come dice in un’intervista Wim Wenders: «Senza dubbio l’intorpidimento del pubblico si sta estendendo; e i film diventano sempre meno “visibili”, per così dire. Non è un caso che l’ironia o le sottigliezze siano merce sempre più rara. E questo deriva dalla sazietà, dalla mole delle immagini riversate sul pubblico, dal fatto che ascoltando e guardando troppo, tutte le nostre impressioni vengono eccitate al massimo. Ogni genere di complessità, di diversità viene spazzato via» (Wenders 2022, p. 30).
Per vedere la complessità serve tempo, attenzione, pazienza, soprattutto vicinanza. Qualità che l’occhio sovrano non si può permettere, ché anzi può dirsi sovrano solo se rifiuta ogni vicinanza con ciò che sta vedendo. In questo senso il vedere in senso proprio, il vedere tattile, ravvicinato, che si “sporca” con il visibile, è al contrario un vedere che si lascia trasformare da ciò che vede. Si tratta di un vedere che non sa già in anticipo che cosa è che si sta vedendo, un vedere, cioè, che è tanto più libero quanto più è disposto a rinunciare alla posizione esterna e sovrana che, invece, qualifica il vedere che si colloca fuori del visibile. Il cinema, per Wenders, è appunto questo esperimento in cui qualcosa si offre alla vita, ma senza predeterminare che cos’è che si sta offrendo alla vista:
Il film ovviamente è un atto di violenza, o rischia di diventarlo in ogni tappa del suo processo. Partiamo dalla fine: a film terminato, nel momento in cui lo si proietta, è un atto di violenza se, anziché offrire allo spettatore immagini da vedere liberamente, prescrive loro ciò che devono vedere. E questo è senza dubbio un rischio latente nel cinema. Il caso estremo è la pubblicità o il film di propaganda […]. Esistono ovviamente anche film che lasciano molta libertà allo spettatore, la libertà di ricostruire da sé il proprio film, o di vedere un certo film. Non si presentano come una entità chiusa che passa sullo schermo, non esercitano alcuna costrizione sullo spettatore, gli offrono libertà. Questi film esistono, e io faccio ogni sforzo perché anche i miei siano così, voglio che si formino anzitutto nella mente degli spettatori, che non prescrivano: “Adesso guarda questo e nient’altro!” Oppure: “Questo deve essere interpretato così”. Non devono prescrivere niente, bensì stimolare la sensibilità visiva dello spettatore, allargare la visuale, come nella vita. Riuscire in questo non è facile, perché nel momento in cui si racconta una storia si seleziona una porzione di visualità. E raccontare storie anche per me è un problema, perché significa correre il rischio della limitazione, la tendenza alla semplificazione (ivi, pp. 53-54).
Si tratta di offrire qualcosa alla vista dello spettatore, evitando però che quanto si offre sia così saturo di “visibile” – così pieno di immagini, di sequenze visive, di potenza immaginaria – da impedire, paradossalmente, di vederlo. Il cineasta, per Wenders, lavora con il visibile, ma non per guidare lo sguardo dello spettatore, al contrario, per liberarlo dall’illusione della visione sovrana, piena di sé, lontana e supponente. La posta in gioco è liberare lo sguardo. O, per usare ancora la curiosa formula lacaniana, per liberarlo dalla credenza che l’occhio sia fatto per vedere. È per questa ragione che per Wenders il cinema è così legato alla contingenza, perché il bisogno di evitare la «manipolazione» non vale solo nei confronti dello spettatore, ma anche del regista rispetto al “proprio” stesso film: «Ogni giorno, mi trovo con la macchina da presa in un luogo determinato che mi dà qualcosa, sono profondamente legato, anche esposto, a una realtà che mi nutre. C’è sempre un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa, c’è qualcuno dietro la macchina da presa, ci sono colori e forme, c’è sempre una realtà presente» (ivi, pp. 57-58). In questo senso il vedere non sovrano, distaccato e dualistico, è un vedere tattile, sempre esposto all’urto imprevedibile con un evento fortuito: «Un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa».
L’occhio, per Wenders, vede solo se tocca ed è toccato. Solo se, per così dire, si lascia sporcare dal visibile. Allo stesso tempo questo vedere tattile, da scultore più che da pittore, richiede un continuo esercizio di allontanamento dal rischio di assumere una posizione definitiva sul mondo: se il soggetto sovrano è fuori dal mondo, il vedere alla Wenders è un vedere mobile, vagabondo, irrequieto, perché il visibile è sempre più ricco del nostro bisogno di fissarlo in un’immagine, per quanto splendida e definitiva:
Mi sembra […] che il bisogno di muoversi nasca come da una forza centrifuga interiore che ti espelle all’esterno, allontanandoti da un centro che qualcuno potrebbe definire una patria; l’allontanarsi dal centro dà soddisfazione, ma pone al contempo, per lo meno, il problema del ritorno. Viaggiare è per definizione sia un avvicinamento che un allontanamento. Nel mio primo film non c’era una riflessione matura su questa polarità. Ma il senso del viaggio, di partire e andare, diventa sempre più esplicito; e con ciò anche la possibilità del ritorno: mi chiedo se il senso del viaggio non sia in fondo più nel tornare, dopo aver preso le distanze per vedere meglio, o semplicemente per potere vedere (ivi, p. 59).
Per «poter vedere» occorre allontanarsi dal visibile, ma anche ritornarci. Si tratta di un vedere che riesce propriamente a vedere solo nel movimento fra queste due posizioni, solo oscillando fra partire e tornare, così come una mano, per esplorare un oggetto, lo deve percorrere in tutte le dimensioni. Wenders, così, può rimanere fedele all’esigenza fondamentale di non manipolare lo sguardo dello spettatore solo “costringendolo” (ed è curioso, perché anche questa è una forma di manipolazione) a non fermarsi su un’immagine, solo facendolo “viaggiare” fra le immagini. Si tratta sempre della stessa operazione, rinunciare alla posizione sovrana dello sguardo, rinunciare al proprio potere di tirarsi fuori dal mondo. Si tratta di stare nel mondo, raccontandolo attraverso le immagini. Si tratta, in sostanza, di mettere in movimento le cose, cioè, appunto, liberarle dalla fissità a cui lo sguardo sovrano le costringe:
E con quali strumenti si può raccontare oggi se non con le immagini? Ovvero, come fare per mettere in movimento le cose? Io non ragiono affatto in termini deduttivi, non posso porre un postulato e derivare da quello una serie di deduzioni. Posso solo pensare al movimento mentre lo realizzo, e verificare così anche la direzione del movimento. E solo nel cinema, nella realizzazione di un film, con le immagini, si assume come metodo quello di mettere le cose in movimento, da un punto all’altro (ivi, p. 61).
«Come fare per mettere in movimento le cose?», è questa la domanda fondamentale, e non solo per il cinema di Wenders. Una domanda del tutto analoga a quest’altra: come fare per tornare a vedere il mondo? E quindi, rovesciandola? Che posizione deve assumere il soggetto dello sguardo sovrano perché il mondo possa farsi vedere? In effetti, come dice Wenders, «le città hanno reso invisibile la terra» (ivi, p. 136), ossia, il nostro modo di vedere il mondo come se fosse il nostro mondo, cioè come nient’altro che l’oggetto della nostra sovrana potenza visiva, ha finito per rendere invisibile la terra. Si tratta di invertire questo movimento, restituire la visibilità al mondo, e quindi destituire la posizione privilegiata dello sguardo umano sul mondo:
Una volta, nel deserto del Mojave in California, vidi un cartello arrugginito, una sorta di spot pubblicitario, molto lontano dalla strada. Era piantato nel nulla, e le sue grandi lettere sbiadite annunciavano: Western World Development: slots 410-460. Qualcuno doveva aver progettato proprio in quel lembo di deserto una città. Il paesaggio circostante era completamente arido, si vedeva solo qualche sparuto cactus. Provai a immaginare lì una città: osservando quella distesa avevo quasi l’impressione che fosse effettivamente esistita, e soltanto scomparsa. Una cosa però non potevo ignorare: la regione era molto più antica di qualsiasi insediamento, quindi era anche inessenziale sapere se fosse o meno esistito un agglomerato urbano (ibidem).
Torniamo, allora, alla paradossale affermazione di Lacan, di un occhio che non è fatto per vedere, al contrario, di un occhio che deve lasciare al mondo la possibilità di farsi vedere e, soprattutto, di un occhio che si destituisce affinché sia il mondo stesso a vedere. Lo sguardo sovrano vede cose, vede e costruisce oggetti: l’occhio di Wenders, invece, cerca – facendo muovere le cose – di immaginare il movimento contrario; così, parlando ad un congresso di architetti, li esorta a «creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro» (ivi, p. 137). Vedere il vuoto, cioè vedere il vuoto non come assenza di qualcosa, bensì vedere il vuoto come presenza, come pienezza di mondo e di vita: «Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo; pensare, invece, prenderne le distanze» (ivi, p. 72). A che il mondo sia, a questo serve l’occhio.
Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013.
Wim Wenders, L’atto di vedere, Meltemi Editore, Milano 2022.