Un rasoio per evitare che la pelle del viso si ricopra di peli ispidi, un pettine e dei fazzoletti da uomo, una quantità di denaro sufficiente per saldare il transito da qui all’altrove. Vegliato dai suoi familiari, Vincenzo (Andrea Fuorto) indossa l’abito buono nella bara ancora aperta al centro della stanza, nella casa dell’arminuta. In un luogo in cui le macchine non servono per spostarsi da uno spazio all’altro ma soltanto per partire o per tornare, Vincenzo è morto a causa di un incidente stradale: viaggiava insieme a un amico su un motorino che ha impattato frontalmente contro l’autobus blu che dal paese conduce “alla città”. Dalla montagna al mare, dai suoni riconoscibili al rumore confuso, dalla libertà dello sguardo agli spazi circoscritti. L’Appennino centrale conserva l’orgoglio di una dorsale che non cede alle misticanze. Si vive in un luogo oppure in un altro, ed è una scelta quella di decidere se abitare la montagna oppure il mare, sebbene spesso sia soltanto una manciata di minuti a separare un cielo costellato da quello uniforme della città. La stessa manciata di minuti che separa l’arminuta dal luogo in cui non ricorda di essere nata e in cui sarà riaccompagnata dal padre. O da colui che credeva essere tale.
Nel dialetto abruzzese, “arminuta” è qualcosa o qualcuna che viene “menata indietro”, cioè riportata nel luogo originale di provenienza. È un termine che rimanda anche a quella tradizione ancestrale per la quale il gregge viene menato sui tratturi, nel rito della transumanza che scandisce le stagioni e accorda il respiro degli animali ai colori della natura. Nel film di Giuseppe Bonito – tratto dal romanzo di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del Premio Campiello nel 2017 –, l’arminuta è una ragazza di tredici anni che viene ricondotta presso i genitori naturali, come un animale che viene riportato nel rifugio in cui ha guardato la prima luce e ha gridato la prima voce, senza ancora saper riconoscere il fuori. Lontana dalla costa in cui viveva con Adalgisa (Elena Lietti) – l’altra madre – e con il carabiniere – l’altro padre –, l’arminuta farà esperienza di una seconda e dolorosa nascita in cui a essere madre e a essere padre saranno due presenze ingolfate dai sensi di colpa, dalla sofferenza e dalla miseria di chi non ha altro sentimento che l’affanno.
In un contesto narrativo in cui i nomi propri sono pochi, è complesso orientarsi senza affidarsi – quasi totalmente – a quella sensazione di straniamento e spaesamento che filtra attraverso la piattezza dello sguardo di Sofia Fiore: i genitori naturali (Vanessa Scalera e Fabrizio Ferracane) si scontrano con una duplice alterità rappresentata dalla madre e dal padre di prima (o di dopo, se si decidesse di collocare quel “prima” nel momento in cui la bambina era stata loro affidata, senza alcuna formalizzazione legale). È un orizzonte di confusione in cui bisogna accettare di stare. Si può tornare soltanto in un posto che si conosce e mai in un territorio straniero in cui si arriva sempre per la prima volta: ecco che l’arminuta non è ancora una sorella per Vincenzo, non è una figlia per i genitori che non l’hanno cresciuta, non è una paesana per il vicinato. Al contrario, è la “signurin” che non ha mai sentito la libertà che si prova sulla giostra del “calcinculo”, “chilli” che viene dalla città di cui conserva i modi e gli abiti colorati ed eleganti (la scelta dei costumi si basa, non a caso, su uno stile bon ton che, per linee e forme, richiama la tipizzazione classica delle raffigurazioni dell’Alice di Lewis Carroll). Nell’unica scena del film in cui il dialetto abruzzese viene sottotitolato, l’anziana e saggia voce di “commara” Carmela confessa alla madre di non avere rimedi per il cattivo pianeta sotto cui è nata, ma la rassicura sul fatto che quella figlia arminuta farà “’na bella riuscita” (di cui Di Pietrantonio racconta in Borgo Sud, 2020).
L’unica che non ha difficoltà ad accogliere l’arminuta e a considerarla subito come sua sorella è Adriana (Carlotta De Leonardis). Educata alla vita pratica, è lei che la sostiene, la difende, la istruisce. Lei che, per la prima volta di fronte al mare, indietreggia con timore per non lasciarsi abbracciare da qualcosa che non può controllare. Lei che racconterà alla sorella i segreti della famiglia che l’ha ripresa, aiutandola così a ricollocare se stessa in un ambiente che non cessa di respingerla. Di fatto, la contrapposizione che mantiene in equilibrio la narrazione non è centrata sulla differenza tra due diverse organizzazioni sociali, bensì sulla complementarità tra le due sorelle: l’arminuta è riflessiva, silenziosa, ingenua; Adriana è impulsiva, schietta, sagace. In assenza delle parole, sono gli sguardi della bambina e della ragazza a determinare il rispettivo posto nel mondo, laddove la consapevolezza è data dalla vicinanza alla materialità delle cose. Sarà infatti Adriana a rivelare all’arminuta il motivo del suo ritorno: Adalgisa non è malata come lei crede, ma aspetta un bambino da un altro uomo ed è per questo che è stata “riconsegnata” alla famiglia di origine. In un certo senso, è come se questo ritorno sia un sacrificio volto a ristabilire un ordine tra ciò che è, da sempre, naturale e ciò che è stato determinato, per una volta soltanto, da una scelta umana.
In fondo, è una questione di priorità. La sapienza che si acquisisce per spiumare e sbollentare un pollo è qualcosa di naturale, come è naturale fare le “buttije” con la conserva di pomodoro che dura un anno intero: nel momento in cui si entra a far parte di un sistema familiare basato sulla necessità, basta un movimento della madre o del padre per stabilire quando la mensa è aperta e quando è il momento di smettere di mangiare. Si tratta di comandi performativi che non prevedono alcuna mediazione linguistica all’interno di uno scenario in cui ogni gesto è una prescrizione di distanza. Questa dinamica non viene scalfita nemmeno dalla morte di Vincenzo, sebbene sia proprio l’arminuta ad avvicinarsi alla madre per consolarla, seguendola, a distanza, nei pellegrinaggi sul luogo in cui il ragazzo è morto.
Dopo quasi un anno, “l’altra” madre Adalgisa decide di incontrare “l’altra” figlia nella sua nuova casa. Fiduciosa di ritrovare il rapporto di complicità con la donna, l’arminuta raggiunge la costa insieme a Adriana e, stavolta, è lei a istruirla sui modi da adottare e sulle posture da tenere. A dispetto di una prima buona accoglienza da parte di Adalgisa e del suo nuovo compagno, il pasto termina proprio con un gesto di Adriana che, incurante dei divieti di questa terza figura paterna, si dirige verso la stanza del neonato che non smette di piangere. Quando la sorella torna nella sala da pranzo con il bambino tra le braccia, l’arminuta capisce che è ora di tornare a casa, non prima di aver compiuto un gesto rituale: entrare con Adriana nel mare e lasciare che sia l’acqua a battezzarle sorella e sorella.
Riferimenti bibliografici
D. Di Pietrantonio, L’arminuta, Einaudi, Torino 2017.
Id., Borgo Sud, Einaudi, Torino 2020.
L’arminuta. Regia: Giuseppe Bonito; sceneggiatura: Monica Zapelli, Donatella Di Pietrantonio; fotografia: Alfredo Betrò; montaggio: Roberto Missiroli; musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia; interpreti: Sofia Fiore, Carlotta De Leonardis, Vanessa Scalera, Fabrizio Ferracane, Elena Lietti, Andrea Fuorto; produzione: Miro Film, Baires Produzioni, Rai Cinema; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia, Svizzera; durata: 110’; anno: 2021.