Non è esagerato sostenere che tutto sia cominciato ad andare a rotoli da quando la bellezza si è separata dal sacro. E così da un lato la bellezza è diventata una faccenda marginale, relegata nel campo sempre più ristretto e asfittico dell’arte, per finire ormai i suoi giorni nella finanza (oggi si parla impunemente delle quotazioni dei lavori cosiddetti “artistici” esattamente allo stesso modo di cui si parla delle quotazioni del Brent o di un credit default swap), mentre il sacro è diventato materia esclusiva di quelle polverose istituzioni che sono le religioni, che hanno un rapporto con il sacro – o il “divino”, come preferisce chiamarlo Agamben – sempre più tenue, se non del tutto inesistente.
Secondo Marcello Ghilardi – nel volume L’apparizione del senso. Estetica ed esperienza religiosa (Orthotes 2025) – quello che tiene (teneva) insieme queste due sfere fondamentali della vita umana, la bellezza e il sacro – cioè il mondo e Dio – è il «senso» che va inteso come «un’adesione al reale non categorizzante» – cioè non conoscitiva e quindi nemmeno attraverso le categorie della religione – «che si accompagna a una capacità di avvertire la presenza e la densità di un significato senza doverlo ridurre epistemicamente a concetti. In questo tipo di esperienza» prosegue Ghilardi «il centro di gravità non è l’ego psicologico, poiché si tratta di un tipo di apertura al reale che ha superato il principio della proprietà e del possesso, come pure della separazione soggetto-oggetto, aprendo a una dimensione che al contempo avvolge e infinitizza il sé e ne abbatte le barriere psicologiche» (Ghilardi 2025, pp. 10-11).
Il punto decisivo è appunto in questa radicale “apertura al reale”, che lo accoglie in tutta la sua potenza e il suo splendore senza però avere alcuna presunzione di ordinarlo, e tanto meno di assoggettarlo ad un progetto umano (al contrario l’antropocene coincide con l’eclissi del sacro, e conseguentemente della bellezza). È l’esperienza del farsi mondo, un’esperienza paradossale – in questa paradossalità consiste propriamente l’esperienza mistica – perché se ogni esperienza presuppone il fondamentale dualismo di chi fa l’esperienza, cioè il soggetto, e l’oggetto di questa stessa esperienza, nell’esperienza del sacro invece questo dualismo collassa completamente. In effetti l’esperienza mistica, di questo si occupa in particolare il libro di Ghilardi, apre appunto e in modo assoluto al mondo, ma nel mondo il soggetto finisce per annullarsi, ché il mondo comprende tutto, anche e soprattutto chi pretenda di non farne parte. Per questa ragione «il centro di gravità» di questa peculiare esperienza «non è l’ego psicologico», cioè il soggetto che può credere di essere un soggetto solo se si pensa come separato e autonomo rispetto al mondo. Nel sacro non c’è più alcun bisogno di dire “io”, o meglio, non c’è più nemmeno il bisogno di non dire “io”.
Pertanto «va […] evocata un’intuizione a-dualista, espressione della irriducibilità della vita e della realtà ad una unità assoluta e originaria (ipotesi monista) o a una dualità altrettanto originaria e rigida (ipotesi dualista)» (ivi, p. 11). Per tenere insieme «esperienza religiosa, estetica e mistica» (ivi, p. 10), in effetti, occorre immaginare una «intuizione a-dualista», cioè che si collochi al di qua tanto del tradizionale dualismo che contrappone il soggetto all’oggetto, ma anche l’imperante monismo (quello della scienza, ad esempio), che non lascia nel mondo alcuno spazio per il soggetto (dev’esserci un soggetto perché ci sia senso del sacro). In realtà l’esperienza mistica presuppone una qualche forma di distanza dal mondo, perché che cos’è quella mistica se non l’esigenza di coincidere con il mondo?
Un’esigenza, al contrario, che non può mai sorgere in chi non ha mai smesso di coincidere con il mondo. Un sasso, come un virus o un ratto, non prova un sentimento mistico perché probabilmente non si è mai sentito qualcosa di separato dal mondo. Il soggetto umano, al contrario, cioè quell’entità che per poter essere un “io” deve essersi staccata dal mondo (cioè appunto dal non-io), può desiderare di superare il dualismo proprio e soltanto perché è un’entità intrinsecamente dualistica, e come tale ha disperato del mondo. Intesa in questo modo l’esperienza mistica è soprattutto un’esperienza sensibile (non è il risultato di un ragionamento) e quindi corporea, che tuttavia presuppone quella stessa distanza dal mondo che cerca di superare. Si tratta della «esperienza antropologica dell’infinito, esperienza di apertura al mistero e di legame, relazione, connessione con l’esistente» (ivi, p. 26).
Si tratta, per Ghilardi, di una esperienza “antropologica”, cioè specificamente umana, ossia propria della specie animale Homo sapiens; in linea di principio non c’è umano che non possa fare questa esperienza, perché se l’umano è il vivente che per sentirsi un soggetto deve separarsi dall’oggetto (cioè dal mondo) è anche e allo stesso tempo il vivente che non desidera altro, in fondo, che ricongiungersi con quel mondo da cui si è separato per poter essere un “io”. Per questa ragione si tratta di una esperienza «abitata» da una «polarità fra immanenza e trascendenza» (ivi, p. 31), appunto al di qua tanto del monismo integrale (c’è solo questo mondo) che della trascendenza (il vero mondo è quello al di là di questo); l’intuizione «a-dualistica» si colloca nell’impossibile snodo – che è allo stesso tempo di congiunzione e di disgiunzione – fra immanenza e trascendenza, fra monismo e dualismo, fra io e mondo.

Ma in che consiste, propriamente, questa esperienza? Si pensa spesso che quella mistica sia una esperienza non solo riservata a pochissimi, che sia un’esperienza “squisita”, ma che soprattutto sia qualcosa del tutto lontano dalla vita quotidiana; in realtà si tratta dell’esperienza di sentirsi affatto a casa nel mondo, che consiste nell’ «apertura costitutiva dell’umano all’esistenza e alla domanda dell’origine e del(la) fine, congiuntamente alla ricerca di un modo per vivere in pienezza, integrando l’incognito e l’incommensurabile, sostenendo il dolore e il lutto, come pure aprendosi alla gioia» (ivi, p. 30). Si tratta di un «modo per vivere in pienezza» la vita che si vive, questa vita qui, e non un’altra, da qualche altra parte. Proprio per questa ragione è una esperienza corporea, incarnata, perché «la [sua] base fondamentale, primigenia, è […] estetica» (ivi, p. 33).
Quella mistica è un’esperienza che si sente, non che si pensi e tantomeno che si dica. Allo stesso tempo non smette di essere una esperienza, per quanto limite e paradossale, e quindi presuppone sempre una qualche separatezza, una qualche distanza fra il soggetto e quel mondo di cui si vorrebbe sentire di fare indissolubilmente parte: pertanto «non si tratta semplicemente di uno stato di coscienza, pur non escludendo nemmeno questo aspetto. In quanto apertura totale alla realtà, essa integra e transita attraverso la dimensione sensibile, quella intellettiva e quella affettiva, arrivando ad eccederle – il tutto di quell’esperienza, che in ultima istanza è contemplativa e non solo speculativa, non coincide con la somma delle sue componenti» (ivi, p. 33).
Un dualismo che ha la nostalgia del monismo, una distanza che non si smette di cercare di superare, un soggetto che vuole rinunciare ad essere un soggetto (e quanto orgoglio c’è in una simile aspirazione): è in questa tensione irrisolvibile che si colloca l’esperienza mistica, allo stesso tempo sensibile e corporea, ma anche intellettuale e distaccata. Ecco allora «la tonalità affettiva che il Mistico […] assume, in un sentire che si fa via via sempre più impersonale, tale da far uscire dal dominio della rappresentazione e della strumentalità, [e] conduce infine al superamento o per lo meno alla sospensione di ogni rigido dualismo tra soggetto e oggetto» (ivi, p. 34).
Siamo sempre lì, fra dualismo e a-dualismo, fra lontananza e contatto, fuori dal mondo e nel mondo. Il soggetto, nella esperienza mistica, deve farsi vuoto, proprio perché il mondo si manifesti in tutto il suo fulgore, ma questo svuotarsi (che peraltro è al centro anche della nostra tradizione: lo “svuotamento”, κένωσις, del Cristo) è ancora un’azione del soggetto. È in questo paradosso che consiste, propriamente, la proposta di Ghilardi, perché il soggetto, «sottraendosi, svuotandosi, si dà luogo» (ivi, p. 158), cioè dà a sé stesso, sottraendosi, il proprio posto nel mondo. Appunto, dare spazio al mondo per poter essere nel mondo:
«E in questo “dar luogo”, letterale e metaforico, consiste il nucleo profondo del simbolo per eccellenza del buddhismo Zen, il nulla (mu 無) o il vuoto (kū 空) intesi come infinita e inoggettivabile apertura di possibilità, condizione non-ontologica dell’accadere di ogni fenomeno. La questione si gioca infine nella capacità di intendere il soggetto non tanto, o non solo, come il possessore o il proprietario della vita, ma come un suo custode singolare. Come si dice che una vettura è in moto (e non “ha il moto”) si dovrebbe forse dire che un soggetto umano è nel pensiero (e non “ha il pensiero”), è parte del pensiero che fluisce attraverso di sé. E così si dirà che un soggetto è nell’esistenza, non la detiene; transita in essa, ne dà testimonianza e, come l’ha ricevuta (senza chiederlo), così infine la restituisce, affinché non resti debito, non vi sia appropriazione, bensì espansione, trasmissione, eredità, fecondità – vita eterna» (ivi, p. 158).

Marcello Ghilardi, L’apparizione del senso. Estetica ed esperienza religiosa, Orthotes, Napoli 2025.