In una delle scene più conturbanti di Angst, il film del 1983 del regista austriaco Gerald Kargl (sceneggiato con Zbigniew Rybczynski, che ne è stato anche il direttore della fotografia), vediamo il protagonista (interpretato da Erwin Leder) uscire di corsa da un taxi rosso, e cominciare a correre forsennatamente per un bosco mentre ci martella la durissima musica elettronica di Klaus Schulze. Da che cosa fugge quest’uomo terrorizzato? Dov’è il pericolo da cui cerca di allontanarsi? Anche se si tratta di una scena, rispetto a quelle che la precedono e a quella che seguirà poco dopo (all’interno della villetta in cui finisce quasi casualmente per entrare, e dove si accanirà sugli ignari occupanti), in cui non c’è alcun episodio di violenza, ebbene è forse la sequenza più spaventosa. L’uomo corre sbattendo sui tronchi degli alberi, mentre la cinepresa lo riprende alternativamente dall’alto, di fianco, da dietro e di fronte, con movimenti frenetici e un montaggio altrettanto fastidioso che disturba lo sguardo e confonde i pensieri dello spettatore. L’uomo fugge, è evidente, ma è lui che poco prima voleva uccidere la tassista: non è in pericolo, è lui stesso il pericolo da cui cerca di allontanarsi.
In questo senso l’angoscia del titolo del film non è riferita a qualcuno o qualcosa che l’uomo in fuga cerchi in tutti i modi di evitare. D’altronde è proprio questa la distinzione tradizionale fra la paura, che avrebbe un oggetto (la paura del pericolo), e l’angoscia che non si riferirebbe a nessun oggetto in particolare. La tesi di Laplanche, tuttavia − tesi che argomenta nel libro L’angoscia. Problematiche I (Mimesis 2022, tradotto da Alberto Luchetti, che sta curando la pubblicazione in italiano di tutte le opere del grande psicoanalista francese, 1924-2012) – è che l’angoscia in realtà è la risposta ad un’intrusione, quell’intrusione dell’altro che segna l’origine dello psichismo umano.
All’inizio, per Laplanche, c’è quella che chiama «situazione antropologica fondamentale», in cui un infans del tutto inerme e incapace di sopravvivere da solo è necessariamente affidato alle cure di un adulto. Una situazione in cui l’infans non ha alcun potere, in cui è completamente in balia dell’altro. Un rapporto che, propriamente, non è un rapporto, perché è del tutto squilibrato dalla parte dell’adulto. Che, è questa la tesi di Laplanche (che riprende e sviluppa quella del libro forse più importante di Freud, i Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905), è un adulto abitato da impulsi inconsci che l’infans, invece, non ha ancora sperimentato. Per Laplanche – contrariamente al modo archeologico di intendere la psicoanalisi – all’origine l’inconscio non è una presenza interna bensì qualcosa che proviene dall’esterno, viene dall’altro. L’infans, così, è letteralmente “infettato” dall’inconscio dell’altro. Non c’è altro modo per diventare umani. E che cos’è, propriamente, l’inconscio dell’altro? La pulsione sessuale, la pulsione fondamentale, la pulsione che accende il desiderio di vivere.
Il piccolo umano è così esposto ad un’intrusione senza la quale non potrebbe sopravvivere, un’intrusione che letteralmente lo mantiene in vita, e che lo smuoverà dall’interno per tutta la sua esistenza. Ma si tratta comunque di un’intrusione, di cui l’infans, e l’adulto che lo seguirà, non riuscirà mai a venire a capo. È qualcosa di interno, ma che viene dall’esterno, è dentro ma è anche fuori, è il proprio sé ma è anche l’altro. La pulsione è incomprensibile, è la pura incomprensibilità di sé a sé stessi. Per questa ragione la «pulsione» è un termine «enigmatico, nel senso che, pur provenendo dall’interno, la pulsione si comporta sempre come un corpo estraneo; per l’Io, la pulsione attacca dall’esterno» (Laplanche 2022, p. 233).
Da un lato c’è la pulsione che, come detto, significa vita, dall’altro, però, la pulsione è un’intrusa, è un esterno-interno, un disturbo che porta con sé agitazione che non può mai trovare riposo. La pulsione agita e mette il movimento il desiderio, che tuttavia è sentito come qualcosa che non proviene da sé, perché il desiderio è inconscio, e l’inconscio è l’altro. Si stabilisce così un impasto impossibile da sbrogliare, un «legame intimo tra l’angoscia e il desiderio» (ivi, p. 153). L’angoscia, infatti, è ciò che si prova di fronte all’assoluto enigma del desiderio, ché è evidente che non sappiamo, né mai sapremo, perché desideriamo proprio ciò che desideriamo. E non lo sappiamo, appunto, perché il desiderio viene dall’altro. La vita psichica si muove allora fra la pulsione sessuale, pulsione di vita e desiderio, e il tentativo di controllare questa stessa pulsione, perché il desiderio porta fuori di sé, letteralmente, cioè verso l’altro. Cioè verso ciò che non si controlla:
«Il lavoro [psichico] consiste nel legare questa energia indifferenziata, questo “X”, in modo che, per l’appunto non defluisca più in maniera libera, meccanicamente, ma sia attaccato ad alcuni contenuti. Il “legame”, del resto, ha come correlato un processo inverso, che si può tradurre con “slegamento” o “scarica”, che consiste precisamente in una brusca liberazione di energia. In questo senso si può dire che l’angoscia è uno slegamento. Il legame è il freno dell’energia psichica, della libido» (ivi, p. 39).
Il legame del desiderio con l’angoscia è paradossale, perché mette insieme la spinta sessuale e vitale con il timore che questa stessa pulsione porti fuori di sé, verso quell’altro che intanto temiamo in quanto ne abbiamo assoluto bisogno. L’angoscia è allora l’affetto che si prova quando ci sentiamo esposti alla potenza della vita che ci porta via da noi stessi:
L’angoscia sarebbe allora l’Io abbandonato alla pulsione, sopraffatto da essa, come il neonato – che non ha ancora Io ma che è l’Io – è abbandonato al debordamento di energia interna. L’angoscia è dunque l’Io abbandonato all’attacco interno ovvero, per meglio dire, all’attacco interno-esterno; qualcosa che si può immaginare come impiantato nella sua scorza, che non può rifuggire e che deve, bene o male, cercare di assumere, e che è la pulsione. In questo senso la descrizione degli esistenzialisti non è così fuori bersaglio, anche se va raddrizzata. “Angoscia della mia libertà”, dicono: noi diremmo: angoscia del mio desiderio; angoscia, altra faccia del mio desiderio, come si parla del recto e del verso di un medesimo foglio, di testa o croce di una medesima moneta. L’angoscia sarebbe l’aspetto inconciliabile del desiderio, di ogni desiderio: nel migliore dei casi, un reliquato ridotto al minimo, ma comunque il reliquato del desiderio (ivi, pp. 154-155).
Forse cominciamo a capire, allora, da che cosa fuggisse, nella sua corsa disperata per il bosco, il personaggio principale di Angst: cercava di fuggire da sé stesso, dalla propria angoscia, ossia dal proprio stesso desiderio di vita. Un desiderio tanto più insopportabile quanto più ci costringe ad uscire dal nostro mondo chiuso, protetto, disinfettato. Impaurito. L’angoscia non si riferisce al pericolo là fuori, semmai il pericolo che immaginiamo là fuori ci serve ad attaccare a qualcosa la nostra angoscia, e quindi ci serve per non vedere che è del nostro stesso desiderio di vita che abbiamo paura. Ma siccome la pulsione è l’altro, allora è dell’altro che abbiamo paura, cioè «dell’effrazione dell’Io da parte del proprio desiderio o della propria pulsione» (ivi, p. 135). In effetti l’angoscia è così intollerabile – perché ci ricorda della nostra paura del desiderio, della pulsione sessuale – che dobbiamo trasformarla in semplice paura, dobbiamo cioè convincerci che c’è un oggetto esterno che realmente ci minaccia: in questo modo l’angoscia si trasforma, ad esempio, in una fobia, che ci permette di «proiettare la pulsione all’esterno […] in cui per l’appunto la pulsione è attribuita [ad esempio] ad un animale [oppure al virus] che si può incontrare nel mondo esterno e di conseguenza si può evitare, o contro il quale si è in grado di difendersi» (ivi, p. 234).
Non è il virus, allora, che spaventa, piuttosto il virus, e tutti gli altri pericoli che ingombrano i nostri pensieri, serve a rendere tollerabile l’angoscia. Ma siccome l’angoscia «attacca dall’interno, proviene da quella specie di fonte interna impiantata nel soggetto» (ivi, p. 66), allora non c’è modo di sfuggirle. Ecco perché abbiamo sempre bisogno di nuovi pericoli “esterni” da temere, il clandestino che viene dall’Africa, il virus, la crisi climatica, la guerra e così via. L’angoscia è «un corpo estraneo dentro di noi» (ivi, p. 63), ma noi non siamo altro che questo stesso corpo estraneo. Non si tratta, allora, di cercare un modo per sbarazzarci dell’angoscia, perché questo significherebbe rinunciare alla pulsione sessuale, e quindi alla vita stessa; perché è vero che «ogni pulsione ci attacca», ma è altrettanto vero che «ci mette in moto» (ivi, p. 140). L’angoscia, infatti, ci richiama all’altro, al pericolo dell’altro che però è lo stesso pericolo della vita, perché «la sessualità è dappertutto» (ivi, p. 269). L’angoscia non ci permette di dimenticarlo.
Jean Laplanche, L’angoscia. Problematiche I 1970-1973, a cura di Alberto Luchetti, Mimesis, Milano-Udine 2022.