La geografia torna centrale, oggi più di ieri. La geografia antropica, quella che ci permette di pensare il presente dei popoli a partire dal loro specifico uso della vita. La pandemia ci ha mostrato che la risposta alla diffusione del contagio non ha riguardato tanto scelte tecnico-politiche, quanto orientamenti di fondo dei popoli, in merito al rapporto tra la vita e la morte, l’individuo e la comunità. Questo è così vero che alcune nazioni, in primis gli Stati Uniti (ma anche la Gran Bretagna), accusate in un primo momento di mancanza di cura verso le migliaia di morti causati dalla pandemia, si trovano oggi nelle condizioni migliori per ripartire, per aver preparato come nessun altro la campagna vaccinale. Dunque si è trattato di una cura diversa. Si è pensato in forma diversa, rispetto all’Europa, alla vita della popolazione. Detto in breve: se in Europa la logica è stata quella della sopravvivenza (limitare i morti, bloccando i vivi), negli Stati Uniti è emersa una logica diversa, quella della affermazione della vita nonostante la morte. E della necessità primaria di aprirsi al futuro, anche se questo avrebbe comportato il rischio di qualche morto in più.

La questione non può essere liquidata con una sorta di darwinismo d’accatto (anche se con Trump ha preso talvolta quell’aspetto), ma con uno sguardo a quelle forme di vita che hanno dato consistenza ad una intera civiltà, gemmata dall’Europa, e che di questa ha sviluppato le direttrici più vitali anche se spesso radicalmente contraddittorie. Le arti e la letteratura ci possono aiutare meglio a capire tutto questo. A capire come un uso della vita prossimo alla vita stessa si disponga più naturalmente e senza traumi al rischio della morte, senza per questo cercarla. E come da questo nasca la possibilità di prendere iniziative più efficaci per rispondere alla crisi. Non tanto dunque la preservazione in teca di un presente sospeso tra la vita e la morte (Europa), quanto la necessità di tenere aperto il futuro (America), riducendo l’impatto con la paura e alimentando quello con la fiducia.

L’America che emerge dalla pubblicazione degli scritti di Alberto Moravia, L’America degli estremi, cronache dei suoi viaggi statunitensi, ci aiuta a capire alcune cose. Nel viaggio del 1935-1936, quando l’Europa era sotto il giogo delle dittature, Moravia giunto negli Stati Uniti, così si esprimeva sul carattere dell’americano che «è come se non si sentisse un tutto concluso e autonomo bensì una parte dipendente e minima di un corpo collettivo. Gli americani sono dei frammenti, con quello di doloroso che c’è talvolta nel sentirsi nient’altro che frammenti» (Moravia 2020, p. 55). Questa idea del frammento, di un “uno” che non si sente concluso ma parte di un collettivo, si può ritradurre in altri termini con l’idea del melting pot americano, che tiene insieme razze e popoli. E che ci permette di capire come quel frammento concatenabile in una relazione sia molto più potente del dispositivo immunitario più resistente in Europa, quello della persona e della sua autonomia che va preservata a tutti i costi.

Nell’individuo americano è in gioco la sua individuazione, che è tale solo rispetto ad un potenziale illimitato dato dalla collettività. Per questo è inimmaginabile rescindere la relazione, eliminare il concatenamento. L’individualismo americano è solo l’arresto malato di questo concatenamento, la cui essenza è invece l’individuo-frammento, composto esso stesso da frammenti: «L’americano risulta composto di elementi eterogenei e collettivi, nessuno dei quali gli appartiene in proprio» (ivi, p. 54). Un individuo-patchwork, elemento di una comunità-patchwork, che vive solo nell’incontro tra eterogenei, individuati ma anonimi (come nello splendido Wagon Master, 1950, di John Ford).

Moravia continua con un’analogia sorprendente con l’Africa: «A Nuova York, mutate certe condizioni, avviene lo stesso che nel centro dell’Africa […]. Di fronte all’immensa città come di fronte alla foresta l’uomo smette di pensare perché si rende conto di essere troppo piccolo e troppo debole: e così, sbarratogli ogni sviluppo, ricade nella condizione naturale» (ivi, p. 58). Questa “condizione naturale” corrisponderebbe in buona sostanza ad una sorta di annullamento dell’individuo nel gigantismo dell’ambiente, nelle folle urbane, nell’automatismo delle macchine. Moravia va ancora oltre e, provando a capire l’emergere di questa condizione naturale, ne individua il momento di genesi, quando «nello sbarco sul suolo americano tutti quegli emigranti si disfacevano della loro personalità, quasi si vorrebbe dire della loro anima, ed entravano come unità umane allo stato grezzo, animale» (ivi, p. 56). È come se l’europeo arrivando in America si disfacesse del suo “volume”, cosa che lo porterebbe verso uno stato più “primitivo”, quello dell’americano.

Ma Moravia non smette nei suoi resoconti dei viaggi americani (che giungono fino al 1969) di trovare l’elemento costitutivo dell’America anche nell’apertura del futuro: «L’aspetto più importante dell’America è il suo futuro» (ivi, p. 69). E da questo ne consegue una differenza fondamentale tra Nuovo e Vecchio Mondo: «La gran differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti sta proprio in questo senso di prologo che dà l’America tutta intera; mentre in Europa, a sentir certi pessimisti, si starebbe già se non proprio all’epilogo perlomeno all’ultima scena dell’ultimo atto» (ibidem).

Come mettere insieme primitivismo africano e futuro? Individualismo e collettività? Si tratta ancora una volta delle mere contraddizioni dell’America o qui c’è qualcosa che Moravia intuisce in forma felice e che ci permette di capire qualcosa dell’America di ieri, ma anche di oggi? E della sua distanza dall’Europa, molto maggiore di quanto non si continui a dire? Da un lato abbiamo detto che il dispositivo immunitario più potente dell’Europa è il carattere “volumetrico” della “persona”. Al personalismo europeo come antidoto al collettivismo si contrappone la dinamica del frammento e del cameratismo americani (cantati da Whitman). Deleuze, molto più di recente, ci ha detto cose prossime: «Gli americani hanno un senso naturale del frammento e quel che devono acquistare è il senso della totalità» (Deleuze 1997, p. 79).

Ora, mentre la “persona” garantisce una sorta di centratura del mondo, una stabilizzazione “umanista”, nel concatenamento dei frammenti prende forma un mondo-patchwork sovra-individuale e impersonale. Da dove il carattere popolare e non elitario dell’arte americana, per cui il poeta è sempre cantore di un sovra-personale: Natura, Collettivo, Democrazia. L’individualismo aberrante americano è il fallimento di questa esposizione al “fuori”, di questa “relazione”. La sua deriva, non la sua essenza, che per l’America è invece il suo essere “comunità d’incontro”. Ora, questo mondo del confine mobile, dello scambio dell’interno e dell’esterno, di una esposizione al “fuori” che è anche wilderness, costituisce il più enigmatico dei circuiti, quello tra il primitivo da un lato e il futuro anche tecnologico dall’altro.

Il punto è che poter pensare veramente il futuro in termini attivi e rinnovanti significa presupporre l’affondo rischioso in quella zona collettiva, comunitaria, cameratesca, “primitiva” (“africana”, come dice Moravia) che elude e scarta il dispositivo-persona, quello che costituendo il meccanismo più potente di difesa dal caos dell’origine priva anche dei rapporti con la forza indistinta della vita. E dunque anche della possibilità che da quel rapporto nasca l’energia e la creatività per inventare il futuro. Creare è rischiare, affondare nel caos per risalirne, ritrovarsi in quella “condizione naturale” solo a partire dalla quale è immaginabile il dinamismo e quella “vitalità innegabile” che caratterizzano l’America.

Possiamo comprendere meglio ora le diverse risposte date alla crisi della pandemia. La risposta alla forza naturale e distruttiva del virus in Europa è stata sostanzialmente “immunitaria”, incentrata sulla separazione delle persone le une dalle altre, sul loro isolamento. Questa difesa, segnata dalla paura e dalla riduzione massima del rischio, se ha garantito più sopravviventi ha inibito fortemente la risposta attiva alla crisi, come si vede oggi di fronte allo stallo della campagna vaccinale. Davanti alla crisi c’è un’Europa smarrita, confusa, per molti versi paralizzata, rispetto ad un’America che marcia inesorabile verso una ripresa della vita sociale. Quella “condizione naturale” a cui l’America ritorna costantemente è la stessa in cui ci ha collocato il contagio del virus. E in questo la sua risposta è stata pronta. Guardando senza paura al futuro come vera reale possibilità di prendersi cura del presente, l’America ha determinato con forza le condizioni allo stesso tempo politiche, scientifiche ed organizzative, per ricominciare. Quelle condizioni erano organizzare una campagna vaccinale senza precedenti. Lo ha fatto.

Se arretriamo ancora nel tempo alla prima metà dell’Ottocento, vediamo anche nello sguardo seminale di un europeo all’America, quello di Alexis de Tocqueville, un’idea che ci spiega ancora l’oggi: «Non bisogna cercare negli Stati Uniti […] la cura minuziosa dei particolari oppure la perfezione delle procedure amministrative;  vi si trovano invece l’immagine della forza, un poco selvaggia a dire il vero ma piena di vigore, e l’immagine della vita, accompagnata da incidenti, ma anche da movimento e sforzi» (De Tocqueville 2006, p. 97.) L’America oggi, come ieri, sembra dunque di fronte ad un nuovo “prologo”, mentre l’Europa prende contezza di essere arrivata ad un probabile “epilogo”.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1997.
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2020.

Alberto Moravia, L’America degli estremi, a cura di Alessandra Grandelis, Bompiani, Milano 2020.

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