Apparso per la prima volta nel 1939 il libro di Isaiah Berlin su Karl Marx non è soltanto una brillante biografia intellettuale e politica dell’autore de Il capitale (1867), ma anche una chiara ed efficace sintesi del suo pensiero, ricostruito non solo e non tanto nella sua complessa e difficile evoluzione interna ma anche e soprattutto nel suo fondamentale e sempre vivo rapporto con le grandi correnti filosofiche, sociali e politiche del XIX secolo destinate a segnare la storia della civiltà e della cultura europee. Certo, Berlin non trascura affatto di ricostruire la genesi e il rapporto indissolubile della ricerca teorica del giovane Marx e perfino del primo delinearsi della sua dottrina scientifica e “sistematica” con la concreta storia sociale del movimento dei lavoratori e in particolare con le più avanzate forme di coscienza e di organizzazione, sia di tipo rivendicativo e sindacale che di tipo politico e rivoluzionario, che esso viene via via elaborando nel lungo ciclo di lotte di classe degli anni trenta e quaranta dell’Ottocento, particolarmente in Francia e in Inghilterra.

Tuttavia è piuttosto nel più vasto e comprensivo contesto della storia intellettuale nell’epoca della Restaurazione, e in particolare del grande dibattito sul “fallimento” della Rivoluzione francese e quindi sui modi per superare in senso progressivo e non meramente regressivo o reazionario i problemi e le contraddizioni della società capitalistica uscita da essa, che Berlin colloca la genesi e la prima fase dell’evoluzione del pensiero di Marx. Perciò nella sua ricostruzione, il rapporto con Hegel e la profonda continuità con il suo pensiero della riflessione marxiana sul primato dell’economia politica e della società civile nel mondo borghese-moderno acquista un rilievo assolutamente centrale. È principalmente da Hegel, che secondo Berlin, Marx acquisisce, già nella fase giovanile del suo pensiero, l’idea dell’unità e oggettività del processo storico e insieme quella del carattere organicamente sociale e collettivo delle sue forze motrici. Solo che tali forze non vengono più identificate, come in Hegel, nelle nazioni o nei popoli come momenti e incarnazioni storiche dello svolgimento dell’Idea o dell’unità dello Spirito assoluto, ma nelle classi sociali, unità e organismi collettivi che si determinano e si generano storicamente dal processo di sviluppo e di trasformazione delle condizioni economiche e di produzione della vita materiale delle società.

Emerge chiaramente dalla sintesi di Berlin il carattere radicalmente critico verso ogni forma di soggettivismo romantico e di individualismo di una tale concezione dell’unità della storia: gli individui come tali non possono essere concepiti fuori dalla loro collocazione sociale oggettiva nelle strutture produttive, nelle forme sempre storicamente diverse e specifiche di divisione del lavoro sociale e di divisione in classi della società in cui esse si determinano e si danno. È in questa impostazione, radicalmente diversa nei suoi presupposti materialistici ma anche profondamente affine, nel suo rigoroso e perfino spietato rigore metodologico, alla concezione hegeliana della storia, dell’unità e necessità del suo processo di svolgimento, che Berlin individua la base teorica fondamentale, “metafisica” come egli dice, del comunismo di Marx. Non si tratta tuttavia di una base filosofica elaborata secondo un metodo astrattamente aprioristico e deduttivo.

Berlin ha il merito di evidenziare in modo particolarmente efficace come proprio il saldo ancoraggio al metodo e alla concezione hegeliana della razionalità del reale storico conduca Marx a muoversi quasi sempre nella sua ricerca teorica e nella stessa definizione della sua dottrina della natura e dell’evoluzione della produzione capitalistica nella direzione indicata dalle scienze empiriche, ogni volta acquisendo e inglobando nella generalizzazione teorica e scientifica i loro risultati acquisiti attraverso lo studio e l’osservazione dei fatti. Ma è l’acquisizione di un metodo storico di matrice idealistica, essenzialmente non empirico, quale quello di Hegel a consentire a Marx di superare il vecchio materialismo volgare che identificava la realtà materiale soltanto con quella sensibile ed empiricamente verificabile. Tale metodo consente a Marx anche di comprendere nella loro decisiva importanza e insieme nei loro limiti storici le tesi di Saint-Simon sul ruolo sempre più centrale della scienza e della tecnica nello sviluppo economico e sociale delle società europee nel contesto della crisi ormai irreversibile dei vecchi ordinamenti aristocratici e feudali.

Anche Marx coglie nello sviluppo della tecnica, nell’impressionante crescita delle forze produttive del lavoro sociale innescata dagli sviluppi della scienza e della tecnica moderne e dal loro uso capitalistico, le premesse materiali per l’avvento di un nuovo ordinamento economico e sociale fondato sull’armonia tra gli uomini e tra essi e l’ambiente naturale, su un nuovo e razionale ricambio organico tra società e natura. Ma tale ordine non può essere il risultato di un disegno pacifico e graduale di riorganizzazione della società basato sulla ragione e sulla scienza, secondo le illusioni utopistiche e idealistiche proprie di Saint-Simon e dei seguaci positivisti della sua scuola che tanta influenza ebbero nelle tradizioni del socialismo francese, sia riformista che rivoluzionario. Ci sono ancora una volta Hegel e la sua dialettica della storia al cuore dell’aspra e serrata critica di Marx ad ogni concezione astrattamente utopistica o razionalistica dello sviluppo sociale. Tale sviluppo viene infatti concepito come la concreta realizzazione, fuori da ogni prospettiva idealistica o puramente mitologica, della concreta libertà sociale dell’uomo, come rapporto attivo con l’ambiente storico circostante, ovvero come coscienza operosa della necessità delle leggi oggettive del suo svolgimento. Il pensiero di Marx appare così, nell’ottica liberale di Berlin, come un grandioso e potente tentativo di comprendere le ragioni dell’apparente fallimento del disegno di emancipazione e di liberazione umana della Rivoluzione francese, sulla base del metodo dialettico e insieme dell’analisi scientifica dei processi sociali e storici. Scrive Berlin:

È naturale quindi che il problema della libertà sociale e delle cause della sua mancata realizzazione sia stato l’argomento centrale di tutti i primi scritti di Marx. L’impostazione che egli dà al problema e la soluzione che offre sono di spirito puramente hegeliano. Ma la formazione intellettuale e le inclinazioni naturali lo spingevano verso l’empirismo e il modo di pensare tipico di questa scuola affiora qua e là sotto la struttura metafisica dietro la quale quasi sempre si nasconde (Berlin 2021).

La sintesi marxiana tra materialismo settecentesco e dialettica hegeliana è per Berlin la base teorica di una ricerca inesausta, viva, perennemente attuale, volta a ricostruire «l’ascesa dell’umanità che con le sue fatiche trasforma se stessa e il mondo esterno a cui è legata da un rapporto organico, sottoponendo tutto ciò che incontra al controllo razionale» (ivi). Alla lotta e all’opposizione tra le idee che scandivano la fenomenologia hegeliana dello spirito, Marx ha sostituito la lotta tra le classi, a sua volta conseguenza della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione che caratterizza ogni formazione sociale nella fase del suo necessario tramonto e che nella società borghese si presenta come la contraddizione tra il carattere sempre più sociale e concentrato della produzione e il meccanismo privato dell’accumulazione capitalistica. Una contraddizione che sul piano economico periodicamente si manifesta nella sempre più acuta concorrenza tra i gruppi capitalistici e in crisi di sovrapproduzione sempre più gravi e catastrofiche e che su quello politico non potrà che sfociare necessariamente nella massima acutizzazione del contrasto tra borghesia e proletariato e nella conquista del potere da parte di quest’ultimo, nella forma della dittatura del proletariato. Contrapponendosi alla teoria delle crisi dell’economista svizzero Sismondi, l’analisi di Marx sarebbe fondamentalmente volta, secondo Berlin, a dimostrare come nessun intervento correttivo delle conseguenze delle leggi della libera concorrenza e nessuna forma di regolamentazione dall’alto è in grado di sanare e risolvere le crisi capitalistiche.

La ricostruzione di Berlin non manca di rilevare la drammatica attualità della critica di Marx a Sismondi, le cui teorie vengono giudicate nientemeno come una anticipazione del New Deal roosveltiano. Ma l’attualità della riflessione di Marx appare nella prospettiva di Berlin anche in alcuni temi fondamentali della critica marxiana al socialismo utopista e alle sue idee di riforma sia di orientamento statalista che di tipo “mutualista” o federalista. Una critica che muove saldamente dall’affermazione del carattere insieme necessario e irreversibile dei grandi processi di centralizzazione del dominio economico del capitale e degli stessi conseguenti fenomeni di concentrazione e di burocratizzazione del potere politico-statuale, ma che, nello stesso tempo, dialetticamente getta le basi di una nuova visione delle ulteriori possibilità di sviluppo futuro dell’umanità e di riorganizzazione della società nel senso dell’affermazione di una concreta, storicamente effettuale libertà sociale, fuori da ogni utopia anti-capitalistica regressiva ma anche da ogni culto “superstizioso” dello stato.  Non sfuggono a Berlin né l’interno dinamismo e complessità della visione marxiana della rivoluzione né la sua compattezza e l’organicità.

La potenza storica di tale visione appariva del resto in modo particolarmente evidente proprio nell’epoca in cui egli scrive il suo libro su Marx, in quei cruciali anni trenta segnati dalla più grave e catastrofica crisi del sistema capitalistico mondiale destinata a sfociare nella seconda guerra mondiale e dagli apparenti successi della costruzione del socialismo nella forma di una economia fondata sulla pianificazione centralizzata nell’Urss staliniana. E tuttavia, nella prospettiva di pensiero liberale che informa il libro di Berlin, proprio tali giganteschi processi sembravano confermare solo in parte le previsioni scientifiche di Marx circa le prospettive di sviluppo del capitalismo. L’espansione di forme sempre più sociali e collettive di organizzazione della vita economica e sociale e la conseguente riduzione delle contraddizioni di classe a quella fondamentale tra borghesia e proletariato sarebbero stati, infatti, secondo Berlin, duramente contrastati  non solo da una forte resistenza democratica ai processi di centralizzazione del potere capitalistico come allo stesso sfruttamento economico da parte del capitale privato, ma anche da un forte intervento dello stato teso alla difesa dei settori più arretrati della borghesia, disposti, pur di salvarsi dal cadere nelle file del proletariato, ad allearsi con la reazione.

Marx insomma, secondo Berlin, «non previde il fascismo e il welfare state». Tuttavia la forza del suo metodo e della sua visione dell’evoluzione economica delle società e della lotta di classe si impongono ancora nella viva dialettica della storia, attraverso una profonda influenza e capacità di mobilitazione rivoluzionaria di grandi soggettività collettive di massa, dimostrando, perfino contro il suo stesso materialismo storico, l’enorme efficacia delle idee, quando esse diventano, per dirla con il giovane Marx, “potenza materiale”. La sua dottrina, scrive Berlin:

Ha avuto e continua nondimeno ad avere un effetto rivoluzionario. Era destinata a confutare il principio che il corso della storia fosse determinato dalle idee, ma proprio l’intensità della sua influenza sulle cose umane ha attenuato l’efficacia delle sue tesi. Modificando infatti la concezione fino a quel momento dominante dei rapporti dell’individuo con il suo ambiente e i propri simili, l’opera di Marx ha modificato visibilmente quei rapporti. Per questa essa rimane la più potente tra le forze intellettuali che stanno operando una trasformazione permanente del modo in cui gli uomini pensano ed agiscono (ivi).

Isaiah Berlin, Karl Marx, Adelphi, Milano 2021.

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