Bruciare bisogna
Parigi, 26 maggio 1946: la guerra è finita da un anno, i roghi di città e di esseri umani, gli autodafé di libri oltre Reno, i fuochi, le ceneri sono ancora lì. Action, un settimanale comunista nato dalla resistenza, pone una domanda dal suono sinistro: “Bisogna bruciare Kafka?”. Suono metallico, suono irreale, ma tipico di tempi in cui la battaglia delle idee era una costola di quella effettiva. Da quindici anni Kafka è tradotto in Francia, analizzato, valorizzato. A porre quella domanda è il nuovo direttore di Action, Pierre Fauchery. A rispondere, per vari numeri, vari autori. Anche nomi altisonanti: Julien Benda, Jean Paulhan, René Char, Roger Caillois, Maurice Merleau-Ponty…
Dell’elenco non fa parte Georges Bataille, che in quei giorni sta aprendo un’altra rivista destinata a un lungo volo, Critique. Il primo numero, proprio quel giugno, contiene anche un articolo di (Alain) Girard su Kafka e il problema del diario personale. Pur diretta da un eccentrico come lui, anche Critique non è priva di tatticismi relativi al posizionamento filo-sovietico — del co-direttore, Eric Weil (ebreo tedesco specializzato in violenza, filosoficamente parlando, e di altissimo profilo), Bataille sospetta simpatie staliniste.
Bataille non fa parte di quell’elenco, eppure quella domanda torna a tormentarlo. Si prende quattro anni per abbozzare una risposta. Critique è una rivista che fa solo recensioni, spesso incrociate, spesso talmente articolate da diventare veri e propri saggi. Ed è così — quando si presenta l’occasione di una recensione — che la sua risposta arriva alla pagina, stupefacente perché prende quella domanda sul serio, la sviluppa. L’articolo ha il titolo di Kafka devant la critique communiste, esce nell’ottobre 1950. All’apparenza commenta una monografia su Kafka di Michel Carrouges, più la recente uscita dei racconti intitolata La muraglia cinese. In realtà è una resa dei conti.
Sette anni dopo, rivisto e rimaneggiato, l’articolo entra in quella serie di ritratti perturbanti che è La letteratura e il male. Nella sequenza Kafka segue Proust, viene prima di Genet (in Italia a tradurlo nel 1973, per Rizzoli, è Andrea Zanzotto — che di Bataille aveva già tradotto tre anni prima il Nietzsche). Kafka vi appare come un esponente di quel “male” che si esprime nella letteratura e che esige qualcosa come un’”ipermorale” per affrontarlo — come si legge nella premessa. Bisogna partire «da certe complicità nella conoscenza del Male, sulle quali si fonda la comunicazione intensa» (Bataille 2006, p. 11). Kafka è un grande comunicatore, Kafka è il male.
Kafka homo politicus
Quell’articolo doveva fare parte di un progetto più grande intitolato La sovranità, un’opera che Bataille abbandona nel cassetto senza pubblicarla, dopo averla iniziata nel 1953, in morte di Stalin. Perché, contro i comunisti francesi filosovietici, quell’articolo insiste su un Kafka “comunicatore” e “sovrano”, ma in una chiave inaudita. Nulla o quasi del contesto kafkiano viene rivelato al lettore, molto è dato per scontato, molto ignorato (si passa sovranamente oltre ogni aspetto del rapporto con l’ebraismo). Kafka diventa un ingranaggio della macchina sovranitaria batailleana – ma è un ingranaggio centrale per immaginare una condizione che sia ancora politica, ma non razionalizzabile.
Un anno dopo la pubblicazione della Letteratura e il male, a Dionys Mascolo, il 13 settembre 1958, chiede: «Capisce, sì o no, l’estrema tristezza e la folle allegria di Kafka? S’immagini Kafka come politico!». Per vergare poi una strana conclusione: «Con la stessa sicurezza con cui la morte trascina nella tomba tutt’e due le nostre gambe, così la parte sovrana che sussiste in noi si sottrae alla discussione politica» (Bataille 1997, p. 502).
Il sogno di Kafka
La strana similitudine ha un’eco lontana. Bataille non sta solo frapponendo una distanza tra politica e sovranità, due concetti tradizionalmente gemelli. Sta usando Kafka — Kafka triste, eppure follemente allegro. E lo fa citando, consapevolmente o meno, Un sogno, il racconto che Kafka prima pubblica all’Epifania del 1917 e poi colloca nella raccolta Un medico di campagna: in realtà è un finale alternativo del Processo. Che si apre con «Josef K. sognò». E si chiude così.
K. alla fine capì; non c’era più tempo per scusarsi; scavò a piene mani il terreno che quasi non oppose resistenza; tutto pareva predisposto; una sottile crosta di terra era stata accumulata solo per l’apparenza; subito dietro si apriva una grande fossa dalle ripide pareti nella quale K., voltato sulla schiena da una dolce corrente, sprofondò. Ma mentre là sotto, con la testa ancora sollevata, già veniva accolto dall’impenetrabile profondità, sopra, sulla lapide, correva con grandiosi ornamenti il suo nome. In estasi per quella vista si svegliò (Kafka 2023a, pp. 83-86, 85-86).
Le due gambe già affondate, «la testa ancora sollevata». Kafka racconta qui non solo il suicidio “assistito” di Josef K., ma anche il suo risveglio estatico di fronte al sogno della morte.
La circolazione senza limiti
L’estasi davanti alla propria morte è stata descritta da Kafka anche altrove. Bataille si getta su passi disturbanti dei diari: riporta di quando Kafka — siamo nel 1922 — simula tic facciali per strada, cammina con le mani dietro la nuca: «gioco infantilmente antipatico, ma efficace» (Kafka 1972, p. 613). Poi incrocia questi testi non solo con la Lettera al padre, ma con Bambini sulla strada di campagna. Per farli incontrare in una notte, la notte della Condanna, il racconto che narra di un diverbio padre-figlio in cui il padre malato si erge in piedi sul letto e condanna il figlio alla morte per annegamento. In cui il figlio esegue subito la sentenza, buttandosi da un ponte ed esclamando piano: «Cari genitori, ma io vi ho sempre amati» (Kafka 2023, p. 1499).
Il 23 settembre 1912 Kafka scrive: «Questo racconto, La condanna, l’ho scritto nella notte tra il 22 e il 23, dalle dieci di sera alle sei del mattino, in un fiato. […] Sforzo spaventevole e gioia di vedere svolgersi avanti a me la narrazione» (Kafka 1972, p. 373). Nel diario dell’11 febbraio 1913 Kafka ci torna su, aggiunge note materiche: «Il racconto è uscito come un vero e proprio parto coperto di muco e lordura» (ivi, 376). Bataille ne ricorda il finale: «In quel momento la circolazione sul ponte era addirittura senza limiti». E rammenta la frase proferita a Brod: «Sai che cosa significa la frase finale? Scrivendola ho pensato a una violenta eiaculazione» (Bataille 2006, p. 148).
Per chiarirla Bataille cita un brano destinato a un altro libro: «La morte irreale, lasciando il sentimento di un vuoto, nel momento stesso in cui ci angoscia, ci attrae, poiché questo vuoto è sotto il segno della pienezza dell’essere». Fingere la morte letteraria è innestare una pienezza d’essere impersonale nel vuoto. «Il nulla o il vuoto, o gli altri si riferiscono nello stesso modo a una pienezza impersonale-inconoscibile» (ivi, p. 153 nota 21). È «il passare sovrano dell’essere nel nulla, che gli altri sono per lui» (ivi, p. 148): proprio la comunicazione del passaggio alla morte è per Bataille l’«universo gioioso» di Kafka, la sua esuberanza di scrittura. Se «la morte è il solo mezzo per evitare alla sovranità l’abdicazione» (ivi, p. 145), “sognarla” è l’estasi della comunicazione, e scriverla permette la circolazione — ma Verkehr è anche rapporto, ogni rapporto, e rapporto infinito.
Un bambino particolare
«Kafka voleva restare nell’infantilità del sogno», dice Bataille quasi in apertura (ivi, p. 142). Restare bambino — ecco il segreto della sua scrittura. Poi ne richiama un ricordo infantile: leggere fino a tardi la sera, sentirsi ingiustamente costretto ad andare a dormire, perché “si deve”. Sentire incompresa —indimostrabile — la propria particolarità che vuole perpetuarsi. Bataille allarga il campo: «alla colpa di leggere successe, in età adulta, la colpa di scrivere» (ivi, p. 141): Kafka, che viene accettato in società come impiegato, non viene compreso come scrittore. E certamente prova a sottrarsi alla sfera paterna, ma l’evasione — insinua Bataille — è «un’evasione fallita. Di più, una evasione che deve, che vuole fallire» (ivi, p. 142).
Ora, non bisogna fermarsi qui: Kafka non vuole l’irresponsabilità, come Bataille parrebbe affermare — non vuole non lavorare, non sposarsi. Non vuole smontare il plesso casa-ufficio. Piuttosto, «la forza silenziosa e disperata di Kafka fu questo non voler contestare l’autorità che gli negava la possibilità di vivere» (ivi, p. 144. La forza fu la non-contestazione, la non-rivolta. La folle allegria di Kafka, per Bataille, è il sottrarsi integralmente alla sfera dell’autorità non mirando a sostituirsi. Kafka è il male perché comunica il sottrarsi a una storia fatta di rovesciamenti. Non rinuncia allo stato e all’esperienza della lotta, ma a che la lotta abbia un senso.
Construction Time Again
Il punto che Bataille coglie all’opera in Kafka è la disgregazione dell’omogeneità dei momenti della prassi. Della loro accumulabilità. Uno non è uguale all’altro, perché — direbbe Bataille in singolare consonanza col Brecht che nei colloqui con Benjamin affrontava i paradossi del racconto kafkiano Il villaggio più vicino — neanche “uno” è solo uno. L’istante è sciolto dal nesso causale perché si distorce, si triplica appena è pensato, appena è ricordato. È uno dei fondamenti del concetto di esperienza che Kafka propone come basso continuo dei suoi significanti. Il tempo della costruzione di tane e muraglie non è preventivabile. E se pure ci sono costruzioni non corrispondono a un progetto.
E qui rileggendo Kafka, nell’estraneità a ogni determinazione, ogni posizione e quindi ogni comando, Bataille è reciso: «L’ostilità comunista è essenzialmente connessa alla comprensione di Kafka. Dirò di più. L’atteggiamento di Kafka di fronte all’autorità del padre si identifica verso l’autorità generale che deriva dall’attività efficace» (ibidem). La puerilità di Kafka è nella diserzione dall’efficacia:
L’attività efficace innalzata al rigore di un sistema razionale come il comunismo costituisce la soluzione di tutti i problemi; ma non può né condannare in modo assoluto, né tollerare nella pratica l’atteggiamento propriamente sovrano in cui il momento presente si scioglie da quelli che seguiranno. (ibidem)
Kafka ha una pratica rivoluzionaria, ma non ha scopi. Kafka non è un politico perché è un bambino, è sovrano perché è bambino, ma «il punto debole del nostro modo di pensare sta nel considerare la puerilità come una sfera a parte, la quale in un certo senso non ci è estranea, ma che resta al di fuori di noi» (ivi, p. 140).
Digerire bambini
L’argomento di Bataille su Kafka è semplice, se si dà retta alla premessa teorica centrale: che ogni azione strumentale, ogni razionalità prestata al calcolo è servile. Per non asservirsi occorre sperimentare istanti senza calcolo — che si danno nell’arte, nel gioco, nella profanazione. Bataille vede non nella pratica comunista, ma nel progetto comunista qualcosa di sempre, inesorabilmente, al lavoro per.
Per illustrare il punto opposto in Kafka cita anche un appunto tardo dei diari, il 19 ottobre 1921, dove Kafka decostruisce Mosé e il suo percorso «imperfetto perché questa specie di vita potrebbe durare all’infinito e tuttavia non sarebbe altro che un istante. Mosè non arrivò a Canaan, non perché la sua vita fosse troppo breve, ma perché era una vita umana» (Kafka 1972, pp. 598-599). Mosé persegue una dilazione che dura sempre un momento. Nessun partito comunista accetterebbe i differimenti dell’essere umano Mosé, chiosa Bataille. Un «partito che rispetta solo la ragione», terrorizzato dagli irrazionali, senza interesse per «la vita lussuosa e inutile e la puerilità» (Bataille 2006, p. 152), vede i bambini solo come «forme minori» rispetto all’adulto. Il comunismo ha inserito l’infanzia tra le cose del passato, l’ha inghiottita e digerita. Ma l’infanzia non è solo un’età, una sfera particolare. In una conclusione rimaneggiata del testo si legge:
Così, fino a nuovo ordine il comunismo ammette l’attitudine sovrana del bambino come una forma minore, chiaramente intollerabile per l’adulto […]. In un mondo socialista, questa particolarità va soppressa. È dunque necessario definire tra l’umore puerile e indifendibile in cui Kafka, scrittore adulto, fonda la sua particolarità, una incompatibilità di fondo con la ragione comunista (Bataille 1979, p. 472).
Prima aveva scritto: «Penso che l’idea di bruciare Kafka […] — da parte dei comunisti era logica — addirittura — eccezionalmente logica» (ivi, p. 470).
Indimenticate
Nel 1961 Il colpevole — mai titolo più kafkiano — vede la luce con una nuova premessa che inizialmente si chiamava La paura. Bataille usa ancora Kafka. Ricorda come nel 1942 — Il colpevole è un diario intimo di guerra — quelle pagine rispondessero «all’impressione che avevo di abitare […] un mondo in cui ero nella situazione di uno straniero. In un certo senso questa situazione non mi sorprendeva: i sogni di Kafka, in vario modo, più spesso di quanto noi potremmo pensare, sono il fondo delle cose» (Bataille 1989, p. 15). Il fondo è il nesso tra letteratura e male: quella nuova premessa si chiude con un discorso radicale sul linguaggio estremo, proferito subito prima della morte: «Queste parole hanno senso solo nella misura in cui precedono immediatamente il silenzio (il silenzio che mette fine): avrebbero un senso pieno solo se dimenticate, cadendo decisamente, improvvisamente, nell’oblio» (ivi, p. 18).
L’anno dopo, dopo averle scritte e rese indimenticate sognando di morire, Bataille muore.
Riferimenti bibliografici
G. Bataille, Choix de lettres (1917-1962), a cura di M. Surya, Gallimard, Paris 1997.
Id., Kafka devant la critique communiste, «Critique», n. 41, ottobre 1950, pp. 22-36, poi “Kafka” in La littérature et le mal, in Œuvres complètes, 12 voll., Gallimard, Paris 1970-1987: vol. IX (= Bataille 1979).
Id., vol. IX, in Œuvres complètes, 1979.
Id., Le coupable, in Œuvres complètes, vol. V, pp. 235-392; trad. it. di A. Biancofiore, Il colpevole /L’Alleluia, Dedalo, Bari 1989.
Id., La letteratura e il male, trad. di A. Zanzotto, SE, Milano 2006 (1987) [Rizzoli, Milano 1973].
F. Kafka, Un sogno (1917), in Un medico di campagna, a cura di L. Crescenzi, Mondadori, Milano 2023a.
Id., La condanna (1912), in Tutti i romanzi, tutti i racconti e i testi pubblicati in vita, a cura di M. Nervi, Bompiani, Firenze-Milano 2023b.
Id., Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972.