Verso il più profondo
di quell’idea di quel sogno,
tricosa Gordio
da atterrire il filo della spada
Andrea Zanzotto
Ernst Jünger e Carl Schmitt sono due grandi ideologi tedeschi del Novecento. Scrittore e pensatore il primo, pensatore e giurista il secondo. Entrambi di penna rapida, di sintassi breve. Vita infinita la loro, rispettivamente di anni centodue e novantasette. Di idee dure, adamantine, di destra totale ed estrema ma assai diversa, anarcoide e avventuriero il primo, cattolico e ordinamentale il secondo. Da decenni la loro opera è giustamente letta e studiata, e talvolta persino riverita a sinistra. La casa editrice Adelphi che di entrambi è la maggior garante in Italia – sfiora le dieci pubblicazioni a testa – propone oggi per la splendida cura e attenzione traduttiva di Giovanni Gurisatti una nuova versione del Nodo di Gordio di Jünger (uscito nel 1953, lui aveva cinquantott’anni), con saggio critico di Schmitt accluso (datato 1955, aveva sessantott’anni), che già trentacinque anni fa aveva visto una sua versione per il Mulino (allora curata da Carlo Galli). Il perché della nuova edizione, o il suo perfetto timing, è facile da comprendere. Incursione antisovietica in morte di Stalin all’epoca, oggi che Putin indossa i vestiti nuovi dell’imperatore, il trattato di Jünger risuona. D’altronde si apre con le parole «Oriente e Occidente»: in tempi di guerra e smottamenti geopolitici, questa dialettica è tutta da pensare. Se solo lo fosse, una dialettica.
Anche se «al di qua e al di là del nodo di Gordio, la lotta tra il potere tellurico e la libera luce non avrà mai vincitori né vinti» (Jünger-Schmitt 2023, p. 145), la «forza di gravità del continente» (ivi, p. 13) sposta l’asse del giudizio su questo nostro versante. Sul libretto tutto pesa dunque l’eco suadente delle parole che Jünger mette in prima pagina: la nostra parte di occidentali coincide con la libertà. Una libertà che «precede lo spazio e il dominio nei quali essa si presenta e si delimita»: un «elemento primigenio che possiamo solo presentire» (ivi, p. 85). Dall’altra parte c’è invece il destino di costrizione che è tipico dell’oriente in varie forme e che ne addobba le vesti politiche, use all’arbitrio e a un’obbedienza che coincide con l’insensato (gente che si getta dalla torre o si butta al fuoco per ordine del sovrano e simili).
Di fronte alla lucidità di sguardo su eventi politici e antropologici di ogni era, di fronte alla messe di esempi sovranamente tratti dalla storia universale, questa dicotomia for dummies, eredità di filosofie della storia vecchie di due secoli, è l’aspetto più retrivo di un testo che Jünger licenziò infine controvoglia, per averlo affrontato sans façon (così scriveva ad Albert Hofmann, suo iniziatore all’acido lisergico, Jünger-Hofmann 2017, p. 52). L’altro aspetto non inutile, ma certo alla lunga stancante, è il ricorso inesausto di Jünger al lessico dell’orrore (che ex oriente oritur sempre, per lui) di fronte a eventi di rilievo politico ma anche etnografico: davanti alle scene di obbedienza cieca che la storiografia racconta da Erodoto in poi, spiega Jünger, da noi vige l’orrore. Orrore che «s’impossesserà – insiste – di chiunque rispetti nell’uomo un nucleo di libertà che non può essere violato» (Jünger-Schmitt 2023, pp. 78-79). Alla fine si finisce sempre lì, alla «sensazione di paralisi e di assurdità. La perdita della libertà provoca una stasi spaziale, spirituale ed emotiva» (ivi, p. 111).
La scrittura di Jünger è di spessore raro, cruda, secca a volte come quella di Canetti. Come spira forte il vento prima del massacro – sarà l’oriente sovietico a perpetrarlo, non a caso –, la penna di Jünger lo sa dire: «la fanteria depone armi ed elmetti e, come un gregge abbandonato, si accalca nella pianura in attesa» (ivi, p. 70). Ma subito dopo è il teorico-Jünger ad aggiungere che «sono questi i momenti in cui emerge dal tempo il basamento roccioso della Storia, il suo tema nudo e crudo, con le sue prove terribili eppure proficue» (ibidem). Ecco: nel Nodo di Gordio tutto è “elementare”, tutto “nucleare”. Tutto tra Oriente e Occidente è metafora «di due atteggiamenti umani fondamentali» (ivi, p. 42). Tutto è terrestre, meglio, tellurico. Tutto è originario, ogni luce è “prometeica”. Eppure è la fede nello spirito a colpire centovent’anni dopo Hegel. Anti-materialista purissimo, Jünger puntualizza che a muovere la mano del fabbro non è il nervo né il cervello né tantomeno il comando: è «l’efficacia con cui lo spirito inizia a lavorare» (ivi, p. 136). E nello spirito c’è una passione per la radice e per l’inestirpabile e l’atomico che è figlia del tempo, di quella cultura di destra di cui oggi sentiamo fortissima l’eco, di cui intellettuali di questa statura sono variazioni ben differenti, che scontano – nelle scelte politicamente ripugnanti del 1933 come in quelle più sorvegliate post 1945 – «il proprio aderire alla storicità radicale» (Galli 2010, p. 155).
Se Benjamin aveva visto, nel 1930, come il Führer che Jünger aveva in mente rievocando la Grande Guerra fosse «l’abile scarica-bombe che [sta] nella solitudine dell’altitudine, solo con sé e il suo dio» (Benjamin 2017, p. 130), nel 1953, dopo sei anni di bombe scaricate, Jünger agita la sua dicotomia teorica per definire una topologia bruta. Da una parte l’ethos della libertà che resta inviolabile in Boezio – quella di coscienza –, dall’altra l’arbitrio dispotico. Ma, lo rileva Gurisatti nel suo saggio conclusivo, Jünger divide il campo per giudicare il passato prossimo: si bea di aver scoperto il vulnus orientale di Hitler e del suo dominio. Come Alessandro Magno comandò infine la proskýnesis sul modello persiano, così l’imbianchino austriaco ha aperto a oriente il credito d’impero, facendosene divorare.
Funziona così l’orientalismo al contrario di Jünger: Hitler fece male i calcoli, fu più orientale di Stalin: con le sue misure “orientali” costrinse i russi, prima “liberati”, «a ripiegare su sé stessi. E proprio lì si rivelarono invincibili» (Jünger-Schmitt 2023, p. 124). Poi Jünger si perde in distinguo su Hitler – all’epoca tipici dei reduci, oggi imbarazzanti («ogni passo che fece al di là della liberazione nazionale verso una dimensione imperiale non poteva che nuocere alla Germania», ivi, p. 143). Inno all’origine, alla sua ripetizione variata, allo strato di terra che fonda il successivo, allo sprezzo per ogni etnologia, Il nodo di Gordio fa felice sia i metafisici della storia sia i Realpolitiker: gli «uomini forti – dice – sono esecutori, liquidatori, semplici trasformatori» (ivi, p. 144). Cosa eseguono? Sempre il fondamento.
Lo scritto di Jünger nega le transizioni, nega le fluidità storiche, non rileva dialettiche. Non accetta neanche la tragedia. A differenza della retorica heideggeriana dell’origine, il «tesoro atemporale», «quieto e permanente» cui attinge l’umano è la «fucina della fondazione». La grazia è stare nell’immensa oscillazione di un unico pendolo (di pendolo parla l’ultimo capitolo, con la stupefacente conclusione così tedesca che «ogni grande popolo è necessario», et tant pis per i piccoli). C’è un che di goethiano, di spengleriano, come puntualizza ancora Gurisatti (ivi, p. 224), nel destino sostanziale, sempre ovviamente «imponderabile», «che tiene miracolosamente in vita il mondo» (ivi, p. 149). E nello scrittore, l’unico a metterlo in forma, a tenere in mano le polarità.
Solo per questo Jünger “vede” la necessità di uno Stato mondiale, lo annuncia, ne sente la «necessità sempre più impellente» (ivi, p. 147). Vede cioè quello che per Carl Schmitt è «il più orrendo dei paradisi immanenti» (Höfele 2022, p. 392), l’incubo, la fine del politico – ciò che atterrirebbe la spada di Alessandro davanti al nodo inestricabile a Gordio, nell’antica Frigia. Ma Schmitt, che al tempo in privato e negli appunti del Glossarium maltrattava Jünger per i suoi tatticismi del dopoguerra anche in merito alla questione antisemita (Höfele 2022, pp. 384-387), in pubblico suggerisce una controlettura: ecco La struttura storica dell’odierna contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente, che storicizza utilmente l’antitesi in chiave di iconografia regionale (ivi p. 169), fornendo precisazioni contro la passione metafisica delle polarità di Jünger.
Ma poi l’amicizia metodologica ha la meglio. Torna anche in Schmitt la geopolitica metafisica: la soluzione è terra contro mare, «intesi come differenti possibilità di esistenza elementare dell’uomo» (ivi, p. 204). Ancora l’elementare. Schmitt cita sé stesso, il Terra e mare del 1942, staglia l’orizzonte “talassico” su cui comprendere la politica globale. Riconosce la diplomazia mondiale al lavoro come sua figlia teorica (in quei mesi provava a persuadere della bontà della sua diagnosi anche Alexandre Kojève, hegeliano e difensore assai paradossale dell’Oriente, nonché della necessità tedesca di andare decisamente verso est), cita ancora una volta Goethe che loda Napoleone come novello Alessandro. Ma coglie l’occasione per precisare la sua posizione: lui non è metafisico-polare come Goethe e Jünger, bensì storico-dialettico. A domande concrete fornisce risposte concrete (ivi, p. 186). E quindi critica tutti – Toynbee e Comte, Marx e Spengler – per aver tolto forza alla storicità cercando leggi naturali della storia.
Come Jünger, Schmitt mira a contemplare il “basamento roccioso” della storia: che oggi sono «tecnicizzazione e industrializzazione» (ivi, p. 192), e che hanno inizio in Inghilterra nel Settecento, un’isola che si è staccata dal continente esercitando il dominio sugli oceani. E che così ha risposto davvero alla “chiamata” della storia – aggredendo il mare come recitava il primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, che Heidegger sovrainterpretava nello stesso 1953 in cui Jünger pubblicava Il nodo. La “tecnica” di cui Schmitt vede il dominio è tutta lì, nell’immensa violenza “di mare” anglosassone. Ma ormai la guerra è persa, alcune aperte allusioni antisemite di Terra e mare non si possono più dire in pubblico. Schmitt si dilunga sulla “tecnica scatenata”, di cui il marxismo non sarebbe che l’esito ideologico e infine politicamente efficace, almeno in Russia. E qui l’analisi di Jünger sulla Russia asiatica viene quasi ribaltata, ma non conta neppure più.
Schmitt concede all’odiato amico il più piatto onore delle armi, una benedizione urbi et orbi: «una verità storica è vera una volta sola» (ivi, p. 209). Onore e lotta dunque, ancora e ancora. Mentre gli occhi ormai esausti del lettore pur virile confondono i conflitti del presente col bagno di sangue metafisico, il primigenio e il talassico, il tellurico e l’elementare continuano la loro battaglia, tra gli applausi di anziani epigrammisti che non muoiono mai, e continuano a ripetersi, continuamente riediti.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in Id., Senza scopo finale, Castelvecchi, Roma 2017.
C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 2010.
A. Höfele, Carl Schmitt und die Literatur, Duncker & Humblot, Berlin 2022.
E. Jünger, A. Hofmann, LSD. Carteggio 1947-1997, Giometti & Antonello, Macerata 2017.
Ernst Jünger, Carl Schmit, Il nodo di Gordio, Adelphi, Milano 2023.