“Non so se sono stato sotto l’effetto di un’illusione, ma Jouvet, nelle scene mute, era per me il volto stesso di Molière”, così scriveva Paul Léautaud nel 1922 sulla Nouvelle Revue Francaise dopo aver visto Louis Jouvet nel Misanthrope al Theatre du Vieux Colombier. La frase è riportata all’inizio del bel saggio di Stefano De Matteis Un attore al limite del teatro in Elogio del disordine (La Casa Usher, 1994, p. 7), raccolta a sua cura di scritti jouvettiani ora ripubblicata per Cue Press (2016).
Avendo visto Toni Servillo “reincarnare” Jouvet sulle stesse tavole di palcoscenico di quello che fu il suo teatro parigino, l’Athénée, si potrebbe dire che sul volto di Servillo si riverberi, come in sovrimpressione, il volto scavato e il sorriso teso, ironico, empatico di Jouvet stesso. Ciò al di là di ogni mimesi, eppure nella vertigine di una resa scenica che si svolge sulla compresenza di più livelli. Elvira è il nuovo spettacolo (prodotto da Teatri Uniti con il Piccolo Teatro di Milano), che in pochi mesi ha percorso già più di trecento repliche.
Elvira fa rivivere in teatro le sette lezioni che furono stenografate da Charlotte Delbo (sua assistente d’origine italiana e di famiglia operaia comunista, che fu deportata ad Auschwitz e sopravvisse) tra il novembre 1939 e il dicembre 1940, al Conservatoire della Parigi occupata dai nazisti. Oggetto delle lezioni la scena dell’addio di Donna Elvira a Don Giovanni (IV atto, scena sesta) nel Dom Juan di Molière. L’allieva si chiamava Paula Dehelly (attrice e doppiatrice morta nel 2008 a 91 anni), cui durante l’occupazione fu interdetto di recitare, perché ebrea. Nel testo l’allieva si chiama Claudia: di una trasposizione scenica infatti si tratta. Quelle lezioni diventano appunto nel 1986 un testo di Brigitte Jaques-Wajeman, a suo tempo occasione sia di un film di Benoît Jacquot con Maria de Medeiros, sia di una messinscena di Strehler, che ne fu interprete con Giulia Lazzarini, trent’anni fa, in una chiave tutta spostata sullo specchiare in quel testo il suo lavoro di teatro. Con Servillo invece ciò cui assistiamo è l’accadere del teatro, il teatro al lavoro, nel suo stato nascente, attingendo a una atmosfera singolarissima: di estrema empatia e di estrema impersonalità. Perché è proprio un abbandono impersonale ciò che, con un lavoro che viene enucleato passo passo, emerge da questa restituzione della lezione di Jouvet operata da Servillo.
Lezione di vita e di teatro insieme. Lezione d’amore e di umiltà. Lavoro vertiginoso dato che il registro è quadruplice: ogni essere sulla scena agisce spostandosi su più piani. Jouvet è la parola-azione delle sue lezioni, è il personaggio di un testo, è Servillo che lo interpreta, è un regista-attore-autore che prova una scena di Molière. I suoi compagni (i giovanissimi Petra Valentini, Francesco Marino, Davide Cirri) sono: l’allieva di quegli anni Paula, il personaggio Claudia, la Donna Elvira di Molière, e gli studenti al Conservatoire nel 1940 sono anche i personaggi Octave e Leon e i molieriani Don Giovanni e Sganarello. Ancora, ciascuno di loro è convocato come “apprendista stregone” dalla magia teatrale, scelto da Servillo allo “stato nascente”.
È una vertigine che, come vertigine vuole, procede nel senso dell’altezza, come gli equilibristi di cui parla Nietzsche, che lassù in alto procedono su un filo sottile e invisibile. I quattro livelli si spingono sempre più in alto. “Più in là, più su”, esortava Jouvet. In uno stralcio di diario scritto dal Sud America, Jouvet scriveva: “So soltanto che ci sono due modi per fare o considerare il teatro: alla superficie o in profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito. Per me, il teatro è questo: una cosa dello spirito, un culto dello spirito. O degli spiriti” (Elvira – Programma di sala, Piccolo Teatro di Milano, 2016, p. 20). Si tratta di un triplice mistero: quello del Don Giovanni, quello dell’attore e quello della vita. Il “chimico-farmaceuta” Jouvet (tale la sua formazione universitaria) sarebbe stato in altre epoche un taumaturgo, un alchimista, un mistagogo, ma di una mistica tutta concreta, cioè di un lavoro (così definiva il percorso spirituale cui sottoponeva i suoi discepoli un iniziato del ‘900 come Georges Gurdijeff, che affascinò l’attore francese).
Dice Servillo: “Quello che Jouvet chiede continuamente a Claudia/Elvira è di abbandonarsi, avere disponibilità ad entrare in questo territorio, nuda, senza difese” (p. 13). Abbandonare l’ego con una sorta di paradossale passione spossessante, atarattica. Una espropriazione del me è proprio il nucleo che si coglie alla visione di Elvira. Jouvet diceva che
il teatro esiste per insegnare agli uomini che vi è altro da quello che accade intorno a loro, altro da quello che essi credono di vedere o di sentire, che vi è un rovescio di ciò che essi credono sia il dritto delle cose e degli esseri, per rivelare se stessi a loro stessi (S. De Matteis, Elogio del disordine, La Casa Usher, 1994, p. 32).
È una atletica della carne e dello spirito che fu anche di Artaud e della sua “danza alla rovescia”. E non è un caso che la metafora alchemica, la capacità trasmutativa del teatro ritorni esplicitamente in Artaud e in filigrana in Jouvet. Proprio una “alchimia molto delicata” definisce Servillo quella vertigine che passa per una trasformazione del me in sé. Di “sciocca mania del proprio io che ingombra chi la possiede” (p. 34) parla Jouvet. Il me è quello che parla ad alta voce, il sé è “l’altro, quello che non ascolti mai dentro di te, quello che parla sottovoce” (ibidem). È il tragitto paradossale che si svolge tra incarnazione e disincarnazione, propria del comédien, come De Matteis ricostruisce nel suo saggio: “il comédien disincarnato si offre al personaggio fino a sostituirsi a lui, diventa testimonianza, usa il ruolo per disincarnarsi. […] attraverso l’impersonalità raggiunge l’amplificazione” (ibidem).
E Servillo parla del “tendere a una incandescenza della resa interpretativa, che confina con una sorta di immaterialità. È questa anche una questione spirituale” (Elvira – Programma di sala, Piccolo Teatro di Milano, 2016, pp. 10-11). Maneggiare la materia (il proprio corpo psichico) fino a renderla incandescente e poi subito coagularla, fissarla, per scioglierla di nuovo ma a un livello più alto: è per l’appunto il procedimento degli alchimisti (della scena). “È il desiderio di durare, di sopravvivere che mi fa vedere nel teatro qualcosa di spirituale, una specie di rinascita dalla morte, ogni sera?” (p. 21), confidava Jouvet. Perdersi nel teatro per ritrovarsi: qui sta il mistero. Cos’è quella “nascita enigmatica” di cui parla Brigitte Jaques-Wajeman, se non questo reale “plus que reèl”, come diceva Cocteau, che si forma e viene in luce sulla scena? Stato nascente del teatro e nascita della luce. Nello spettacolo tale sostanza luminosa, equiparata a una sostanza musicale, si amalgama al semplicissimo e potente lavoro orchestrale (che le luci magistrali di Pasquale Mari accompagnano maieuticamente, come quando il fumo di una sigaretta aspirata sul fondo scena materializza il corpo luminoso).
E Servillo sostiene che si può guardare a Jouvet come a un grande musicista. Il testo teatrale tende alla stessa incandescenza emotiva di una partitura musicale. Come sottolinea Brigitte Jacques, Elvira viene vista da Jouvet “toccata dalla grazia divina”. In lei la gratuità, il dono, sono il sentimento della grazia. Il suo incedere, il suo passo, l’entrata in scena, su cui insiste Servillo/Jouvet hanno a che fare con un’annunciazione, una visitazione, una trasfigurazione. Il volto di Petra Valentini, fotografato ad occhi aperti e chiusi in primissimo piano, da Antonio Biasiucci, restituisce questa estasi, come una maschera funebre e insieme come un volto estatico che rinasce. Si tratta appunto di una reviviscenza, compiuta come un atto d’amore. Amore che è forse la cifra più segreta ed evidente a un tempo dello spettacolo. Lui impaziente, lei che si sottrae e lo rifiuta: è un gioco d’amore, una seduzione, come il pregare di una sonata di Chopin, l’insistenza da cui finalmente scaturisce la voce che parla nell’oscurità, cui apporta una luce.
“Come se si trattasse della conquista di un’anima”, dice la Jaques, e si pensa ad Amore e Psiche. Jouvet parla di “tutto questo amore da cui ella è stata colmata e che le è cresciuto dentro per un fenomeno di chimica celeste” (p. 27). E, ricorda Servillo, che l’attore francese: “dice chiaramente che non è la recitazione a generare il sentimento, ma è il sentimento in cui è l’attore, in quel momento, a generare la recitazione” (p. 11). Allora il sentimento diventa un gesto etico. Un’etica dell’evidenza che si spinge “al limite del teatro”, come scrive De Matteis. Rivelazione “improvvisa, stupefacente, meravigliosa” (p. 12). Il mistero del teatro trascorre in una zona intermedia al limite del teatro. Teatro e vita. Vita e morte. Mortalità e immortalità.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, B. Roberti, a cura di, Toni Servillo, oltre l’attore, Donzelli, Roma 2015.
S. De Matteis, a cura di, Elogio del disordine, Cue Press, Imola 2016.
Elvira – Programma di sala, Piccolo Teatro di Milano, 2016.
S. Geraci, a cura di, Louis Jouvet. Lezioni su Molière, Officina, Roma 2015.
L. Jouvet, Molière et la comédie classique, Gallimard, Paris 1965.