Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin tocca un tema di grande attualità, attraverso la storia di un figlio di un ferroviere cinquantenne di sinistra che frequenta gruppi di estrema destra. Dietro questo apparente sguardo sul presente che le cronache ci riconsegnano si nasconde la profonda struttura tragica del film. Che si fonda sul legame stretto, quasi simbiotico, tra un padre e i suoi due figli, Fus e Louis, da lui cresciuti, in assenza della madre che è morta.
Louis, il minore, è il figlio bravo e capace, destinato ad andare a studiare a Parigi, alla Sorbona. Fus è quello che non ha completato gli studi e, senza portare alla luce la rivalità con il fratello, sente che deve trovare un gruppo in cui sentirsi riconosciuto, e che non richieda qualità particolari per entrarvi. Il padre Pierre (Vincent Lindon) ha guidato la famiglia con responsabilità e cura anche materna (“Non puoi chiedere di non preoccuparmi” dice a uno dei figli), ma questo ha anche significato proiezione ideale sui figli. E se per Louis tale proiezione ha trovato felice corrispondenza, con Fus no. Quest’ultimo si chiude in un silenzio che significa sottrazione all’ideale paterno, o meglio ancora un suo ribaltamento con l’adesione, in primo luogo emotiva, ai valori (razzisti) e ai comportamenti (violenti) dei gruppi di estrema destra.
Nel nucleo ristretto familiare, Fus sente che l’amore del padre è sottoposto all’ipoteca pesante della sua corrispondenza agli ideali paterni. Ipoteca insostenibile, a cui Fus silenziosamente si sottrae. Non ha il coraggio di opporsi frontalmente, ma dice semplicemente al padre che si tratta della sua vita, e sta a lui decidere cosa farne. Il padre lo segue e lo insegue, nelle palestre dove si lotta, si urla, e ci si allena con forza e violenza. Il padre è scioccato e giudica. La distanza dei valori sembra insormontabile.
Ma i valori in sé, e il film ce lo dice chiaramente, sono una proiezione ideale di qualcosa di emotivamente più profondo, la rivalità non espressa con il fratello per contendersi l’amore del padre. Fus sa bene che non potrà mai essere amato così come Louis, per la semplice ragione che non corrisponde agli ideali narcisistici del padre. In gioco non sono valori e cultura, ma più radicalmente amore di sé attraverso l’amore dell’altro.
Quell’amore che il padre crede di avere per il figlio, ma che invece è fortemente condizionato. Tant’è che quando il figlio entra in una zona per il padre non più trasparente, cioè non più corrispondente ai suoi ideali, lo sguardo del padre si fa indagatore e sospettoso, le sue parole si fanno aggressive, accusano, diventano perfino provocatorie: “Se fosse ancora viva tua madre…”. E gli stessi ideali di tolleranza che il padre predica al figlio vengono da lui stesso traditi. Non è tollerante con il figlio, non accetta semplicemente che possa essere diverso da lui.
La responsabilità eccessiva sentita dal padre, per l’assenza della madre, nell’educazione dei figli ha comportato un peso gravoso nell’esercitare il ruolo di garante assoluto della famiglia. Ma questo sentimento è un problema del padre, non dei figli. Che sono stati all’altezza delle loro responsabilità. Fus ha saputo ben corrispondere, come ricorda Louis al padre, alle responsabilità di fratello maggiore durante la malattia della madre.
L’amore del figlio è l’amore del padre per se stesso attraverso il figlio. E se questo passaggio per il figlio diventa un problema, il padre diventa aggressivo per il suo narcisismo ferito. Al silenzio del figlio (The Quiet Son è il titolo internazionale del film), il padre non sa rispondere con le parole giuste, aggredisce, spia, insegue.
Tant’è che quando giungerà l’irreparabile, il figlio che per vendicarsi di un atto di violenza subito ucciderà il suo aggressore e andrà a processo, il padre durante il dibattimento prenderà la parola e accuserà se stesso, si attribuirà le colpe, prima ancora che il tribunale condanni Fus a vent’anni di carcere.
Le colpe dei padri ricadono sui figli, come anche quelle dei figli sui padri. È un circuito stretto della colpa quello che il film mette in gioco. Da questo circuito il padre cerca di preservare l’altro figlio, Louis, che la situazione potrebbe danneggiare rispetto ad un possibile futuro luminoso. I due fratelli si vogliono bene e si cercano, anche se una rivalità non manifesta e sorda mina la fiducia di Fus.
La forza del film è di arretrare in una zona di indecidibilità emotiva inalienabile la relazione tra un padre e i suoi figli. Una zona che anche se mascherata da valori culturali e scelte ideali, è il motore interno di tutto. La necessità di riconoscimento, le invidie sotterranee, le immagini ideali di sé che richiedono riscontri azionano dal profondo le relazioni, che poi vengono trascese e mascherate dal valore (tolleranza/intolleranza, accoglienza/rifiuto). Operazione di mascheramento o di sublimazione che non placa la tempesta della soggettività ferita e non gratificata, che trasforma il suo dolore in mutismo. Un dolore che lavora sordamente minando il tutto, scelte affettive, politiche ecc.
Quello che il film ci dice, attraverso uno stare addosso della macchina da presa ai personaggi, ai loro volti, senza soffocarli, ma restituendoli in una espressività che ci riconsegna tutto lo sconcerto di una fase della vita in cui si è alla ricerca di un possibile destino, che può anche giungere in modi tragicamente imprevedibili.
Negli spazi chiusi della casa o del tribunale, la messa in scena lascia emergere tutta la complessità dei personaggi (nessuno del tutto colpevole né innocente), che manifestano attraverso prove d’attore notevoli (su tutte quelle di Lindon) la condizione tragica dell’esistenza umana. Che fatica a giungere ad una esercizio di libertà consapevole (per esempio quello di scelte politiche mature) perché è costantemente spinta da pulsioni profonde che non riconosce e che riguardano emozioni e sentimenti feriti. Tanto più feriti in quanto si misureranno con una dimensione ideale, la quale a sua volta sarà tanto più alta quanto più intenso sarà stato l’investimento, come nel caso del padre Pierre. Ma tutto questo il film non ce lo restituisce attraverso una psicologia spicciola, ma con atti, parole, silenzi, espressioni, gesti dei personaggi, e lo sguardo della macchina da presa collocato sempre alla giusta distanza. Questa mancanza di riscontri e di corrispondenze, veri o immaginari essi siano, fa precipitare i soggetti nel mutismo, nell’incomprensione, nell’aggressione, che saranno tanto più forti quanto più stretto sarà il legame, come quello tra un padre e i suoi figli.
Il film racconta tutto questo attraverso una forma tragica che porta all’isolamento dei tre, dopo l’incarcerazione di Fus, e la decisione del padre di non andarlo più a trovare per non sapere cosa dirgli. Ma per fortuna Pierre viene convinto a tornare sui suoi passi. Andrà in carcere e parlerà al figlio, le cui ultime parole saranno distese, e rimanderanno alla possibilità che i tre tornino a pensarsi ancora insieme.
Jouer avec le feu. Regia, sceneggiatura: Delphine Coulin, Muriel Coulin; fotografia: Frédéric Noirhomme; montaggio: Béatrice Herminie, Pierre Deschamps; musiche: Pawel Mykietyn; interpreti: Vincent Lindon, Benjamin Voisin, Stefan Crepon; produzione: Felicita, Curiosa Films, France 3 Cinéma, Umedia; origine: Francese; durata: 110’; anno: 2024.