Suddividendo il tempo in stagioni, l’essere umano perpetra l’illusione di aver risolto il mistero di quel potente movimento generativo che passa dall’acqua alla terra, dalla terra all’aria, dall’aria al fuoco. Così, confondendo la sua presenza nel mondo in un continuo divenire che è, allo stesso tempo, affermazione e negazione di vita, egli ha imparato ad affidare la sua memoria alla tecnica, non fosse altro che per fissare alcuni dei suoi rituali su una superficie tattile e materiale. Nella consapevolezza di un infinito impossibile, il bisogno contemporaneo di raccontare e documentare la vita viene esaurito dall’utilizzo di apparati capaci di produrre forme di linguaggio che continuano a farsi narrazione. Si tratta di un’esigenza collettiva che si ritrova, ad esempio, nell’atto del fotografare che – per molti aspetti – rimanda alla necessità di suddividere il tempo, o meglio, di suddividere la realtà in porzioni statiche di mondo. Esistono, tuttavia, circostanze in cui la fotografia è la sola realtà di cui disponiamo, laddove i corpi sono assenti e i movimenti non più replicabili. È questo il caso della pratica performativa di Joseph Beuys in cui fotografia e arte agiscono in senso complementare.
Inaugurata nel centenario della nascita dell’artista tedesco, la mostra “Joseph Beuys. Difesa della natura: Facciamo presto!” all’Imago Museum di Pescara si sviluppa attorno a una duplice riflessione che coinvolge sia lo statuto documentale della fotografia, sia il portato materiale di un documento. Attraverso oltre duecentotrenta oggetti visivi, l’invito è quello di lasciarsi coinvolgere in un percorso in cui, in maniera rapsodica, i manifesti si alternano alle fotografie scattate da Claudio Abate, Tano D’Amico, Fabio Donato, Stefano Fontebasso, Gianfranco Gorgoni, Giuseppe Iammarrone e Antonino Orlandi. Il volto di Beuys è al centro di tutti i documenti esposti, come testimonia anche il ritratto fotografico di Andy Warhol il quale, nel 1980, fotografò l’artista tedesco in occasione dell’incontro organizzato da Lucio Amelio nella sua galleria di Napoli.
Volendo operare un’ampia generalizzazione, si potrebbe affermare che la singolarità della pratica artistica di Beuys si basa su un peculiare equilibrio tra materialità e umanità, in cui la materialità non è da leggersi in senso letterale, cioè come qualcosa di opposto sia all’intellettuale sia allo spirituale. In altri termini, materiale è tutto ciò che si può trasformare attraverso un intervento di carattere individuale, come testimonia l’opera Infiltration Homogen für Konzertflügel (1966) in cui Joseph Beuys assimila un pianoforte a un corpo femminile: quando i tasti non sono ricoperti dal peso delle dita, è impossibile sentire il suono di un pianoforte, così come è impossibile sentire il pianto di un infante quando il suo corpo è costretto nell’utero della madre. Nella realtà dell’opera, un panno di feltro ornato da due croci rosse laterali copre lo strumento, ma nella realtà del mondo, risuona la denuncia nei confronti del Talidomide, un farmaco somministrato alle donne in gravidanza i cui effetti erano stati oggetto di discussione negli anni sessanta per i gravi (e a quel tempo ignoti) effetti collaterali. In questo modo, Beuys consegna all’oggetto una funzione di carattere prescrittivo: se non si può agire sul passato, si potrà sempre manifestare nel presente.
È questo stesso principio a guidare Beuys nel 1976 quando, in occasione della 37. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, presenta l’installazione Straßenbahnhaltestelle: Ein Monument für die Zukunft [Fermata del tram: un monumento per il futuro]. Nella città di Kleve, Beuys aveva imparato a osservare la materialità pesante del mondo, costruita su un’alternanza di pietra e di ferro. La rielaborazione del monumento cittadino custodito nella sua memoria personale diventa occasione di una connessione universale, sia con il presente, sia con la necessità dell’uomo di pensarsi libero a partire da una dimensione conflittuale, come del resto era emerso anche nella precedente performance Boxkampf für die direkte Demokratie (1972), incontro conclusivo di Documenta V (Museum Fridericianum, Kassel).
Con l’intento di coniugare in un’unica dimensione la materialità del mondo e la necessità di preservarne la differenza sostanziale, il 3 ottobre del 1974, Joseph Beuys presenta a Pescara, per la prima volta, il suo progetto a difesa della natura nell’incontro organizzato da Lucrezia De Domizio Durini. Soltanto una collettività può prendersi carico di un’idea che nasce in comune e sopravvive grazie alla lungimiranza di chi sa imparare la pazienza: osservare i riti della natura significa rispettare il luogo in cui tutti noi già sappiamo di abitare; sfruttare la natura significa, al contrario, condannare l’umanità allo scadimento della fine. Basterebbe conservare la tecnica della cura: guardare le mani prolungarsi negli attrezzi e scavare, lasciando che il seme si posi accudito laddove resta nascosto il fecondo intreccio che non ci riguarda e che ci riguarda.
Attraverso un’attività di sensibilizzazione dal carattere performativo, è possibile osservare l’evento ancestrale del mondo: la natura non esclude l’umano perché umano è tutto ciò che è già natura. La consapevolezza di questa scoperta dovrebbe spingere a emanciparsi dal problema di popolare le città di nuove vite senza preoccuparsi di controllare quali siano il tasso di natalità e di mortalità degli alberi, seguendo così l’invito che sembra risuonare nel progetto 7000 Eiken (1982), inaugurato da Beuys nel territorio di Kassel e portato a termine dal figlio Wenzel, dopo la morte del padre. Già nel 1971, con l’opera La rivoluzione siamo noi, Beuys aveva suggerito il significato rivoluzionario dell’azione che, nell’unione di tanti singoli gesti, salva la collettività, a testimonianza del fatto ogni elemento è indispensabile per la preservazione della stessa vita nel mondo.
La speranza di una conservazione eterna della differenza è ancora oggi coltivata in un terreno di quindici ettari: è Bolognano il luogo non-più-utopico di una riserva il cui scopo è quello di trattenere ciò che sarebbe destinato a scomparire, perché anche di questa dissoluzione è il mondo. Grazie all’amicizia con Buby Durini e Lucrezia De Domizio Durini che intuiscono l’importanza ecologica e antropologica del suo progetto, il 13 maggio del 1984, Beuys consegna alla natura il compito di conservare la sua opera come pratica di continua rinascita. Si tratta di un gesto che si radica nell’antroposofia di Rudolf Steiner per espandersi attraverso un progetto fatto di ricerca, scavo, osservazione, cura, salvaguardia. Nella costruzione di un equilibrio di adattamento, ciò che resta è la potenza di un ecosistema capace di salvaguardare se stesso, forse per ammonirci di fronte alla nostra stessa fine.
Se noi non abbiamo rispetto per l’autorità dell’albero, o per il genio, o per l’intelligenza dell’albero, l’albero deciderà di fare la sua telefonata agli animali, alle montagne, alle nuvole e ai fiumi, deciderà di parlare con le forze geologiche. Possiamo ancora decidere di allineare la nostra intelligenza a quella della natura.
L’arte di Beuys è protesa verso il nostro presente perché è in questo tempo che non smette di germogliare, proprio come quegli alberi che continuano a sopravvivere all’evento della piantumazione perché, in quello stesso momento, è stata seminata anche l’urgenza di non voltarsi altrove e di non confondere il futuro con la speranza. Non temporeggiare, non demandare, non confidare. Agire è la sola scelta per restare.
Riferimenti bibliografici
J. Beuys, Che cos’è l’arte, a cura di Volker Harlan, Castelvecchi, Roma 2015.
Id., Difesa della natura. Discussioni 1978-1984, a cura di Lucrezia De Domizio Durini, Lindau, Torino 2019.
A. Borer, L. Schirmer (a cura di), The Essential Joseph Beuys, Thames & Hudson, London 1997.
H. Stachelhaus, Joseph Beuys. Una vita di controimmagini, Johan & Levi, Monza 2012.
Joseph Beuys. Difesa della natura: facciamo presto!, 30 dicembre 2021 – 5 giugno 2022, Imago Museum di Pescara.