Stand-alone sono chiamati quei prodotti seriali che hanno la caratteristica di non essere tali. In televisione sono gli episodi autoconclusivi di una serie, il cui intreccio si esaurisce all’interno dell’episodio stesso. Episodi autosufficienti, che bastano a loro stessi.
È il caso anche di Joker di Todd Phillips, che racconta la nascita del più celebre antagonista di Batman senza reali connessioni con l’universo fumettistico-cinematografico della DC Comics (l’uccisione del padre e della madre del futuro Batman, Bruce Wayne, nel finale del film, è il solo evidente richiamo a quel mondo). Ma è lo stesso Arthur Fleck/Joker a non voler “bastare a se stesso”. Mosso dal desiderio di portare risate e gioia nel mondo (“Mia madre mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice”), Fleck, aspirante cabarettista (stand-up comedian) con il sogno di partecipare allo show di Murray Franklin (Roberto De Niro) e clown per necessità, cerca il contatto con gli altri. Senza riuscirci. Quando sembra trovarlo, l’incontro con la vicina di casa di colore, Sophie, questo si rivela illusorio, immaginato. Contatti sociali che gli sono impediti anche a causa della malattia che ha sviluppato e che lo porta a ridere in maniera incontrollata e inquietante.
È una risata fragorosa, fuori luogo e fuori tempo, che non gli permette di accordarsi con il tempo in cui vive. Ignorato, calpestato, preso in giro, Fleck reagisce violentemente uccidendo tre persone nella metropolitana. Questa sua reazione non resta un gesto isolato, ma viene invece percepita come un segnale di ribellione da parte di altri emarginati, che vedono nel clown killer una sorta di vigilante, che non dà la caccia ai malviventi, ma riscatta, anche con il crimine, la parte di popolo più afflitta. Fleck si ritrova così per la prima volta non soltanto compreso, ma addirittura idolatrato.
Fleck è in questo senso l’erede dei personaggi “esistenzialisti” scorsesiani, come il Travis Bickle di Taxi Driver o il Rubert Pupkin di Re per una notte. Richiamati entrambi esplicitamente attraverso la presenza di Robert De Niro ma anche da ripetuti riferimenti all’iconografia urbana di questo cinema (possiamo pensare anche a Il braccio violento della legge di Friedkin), da soluzioni narrative come l’utilizzo di una focalizzazione interna al racconto (che ci fa entrare nella mente del protagonista, facendoci partecipare dall’interno alla sua evoluzione) e da gesti e situazioni che a questi due film fanno esplicito riferimento (uno su tutti, il segno della pistola puntata alle tempie con le dita come in Taxi Driver).
Perché se Joker prende in qualche modo le distanze dall’action DC o Marvel è proprio per connettersi a quest’immaginario cinematografico americano degli anni settanta-ottanta. Quello che ha raccontato la crisi di soggetti che si muovono in ambienti dispersivi e frammentari e nei confronti dei quali non hanno strumenti di risposta o, al contrario, rispondono con un eccesso di azione, violenza (è sempre il caso di Taxi Driver, del massacro finale).
Ed è questo lo scarto che il film compie rispetto alla produzione supereroica mainstream hollywoodiana: uno spostamento d’attenzione da una dinamica propriamente spettacolare al racconto della lotta interiore del protagonista. Un processo di liberazione, di nascita, quello di Fleck, che passa attraverso una evoluzione del corpo e della risata.
E sembra questa la vera posta in gioco del film: la messa in immagine di un corpo che, prendendo le distanze dai corpi virtuali del cinema dei supereroi, recupera la flagranza fisica del cinema moderno scorsesiano, innestandola quindi all’interno di questo cinema. Scavato, incurvato, ossuto, nervoso, quello di Joaquin Phoenix è un corpo che si traveste, che porta inscritto su di sé tutti i segni della sua marginalità, i tormenti di una battaglia interiore che alla fine lascia emergere la sua vera identità. Una performance attoriale in cui il corpo e il volto (la risata) sembrano in alcuni momenti poter anche acquisire una loro autonomia, scartando da una dimensione meramente mimetica, narrativa, per mostrarsi come puro movimento e pura “qualità”.
È la lievità del “corpo danzante” del musical classico (è il caso di Fred Astaire che Fleck guarda in tv) o quello comico di Charlie Chaplin (presente in un altro momento del film quando, nel tentativo di parlare con il sindaco di Gotham City, Thomas Wayne, che crede essere suo padre, Fleck si reca in una sala cinematografica dove proiettano Tempi moderni).
Lontano però da queste attualizzazioni del corpo, quello nevrotico di Phoenix non riesce a liberarsi dalla forza di gravità che lo àncora alle logiche narrative dell’intreccio (la necessità di spiegare con un passato di infanzia abusata le azioni presenti, il legame morboso con la madre, di chiara ascendenza hitchockiana) così come il suo volto non riesce mai farsi “immagine-affezione”, espressione pura di un affetto. Neanche quando nel finale danza sulle note di That’s Life. Nessuna astrazione di qualità o potenze considerate in sé, senza riferimento ad altro, ma la messa in immagine di un corpo che continua a non bastare a se stesso.