Per Baudelaire il riso è espressione sintomatica, sintomo corporeo. In un film di Bunuel, Él (1953), il protagonista ha una allucinazione significativa: il crocefisso di una chiesa, corpo tormentato e martoriato, scoppia in una risata. Il traumatismo di un corpo che viene sottoposto al martirio emette una risata. Ora il carattere perturbante di un tale sintomo “comico” unisce sofferenza e riso e introduce una tracimazione del corpo che prolifera di sintomi automatici e provoca su di sé e sull’ambiente circostante una catastrofe comica. È per l’appunto ciò che il corpo polimorfo di Jerry Lewis ha attuato nei suoi film, prima come attore e poi come cineasta, estendendo a tutto il set, alla scenografia, agli oggetti, agli arnesi, agli arredi una catena disastrosa che provoca riso. La sua unicità consiste proprio in questo: una reazione a catena che si amplifica e si ripercuote sullo stesso film, producendone scissione, frantumazione, e in conseguenza di ciò riflessione e duplicazione schizoide dello stesso dispositivo filmico.
La scissione comica, la sofferenza della perdita e della caduta che implica, fanno dire a Baudelaire (De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques, 1855) che il comico appartiene al cristianesimo, e che il riso è connesso, con l’incidente della caduta originaria, a una degradazione fisica, innervato in un corpo originariamente caduto e ferito. Quando Jerry provoca una valanga di cadute, frantumazioni, scivolate, quando perturba e distrugge gli ambienti investiti dai suoi atti mancati, quando il suo corpo emette comicità attraverso estroflessioni incontrollate, gesti scoordinati, smorfie compulsive, non sta soltanto ripetendo i capitomboli o i marionettismi delle vecchie comiche, o di maestri come Chaplin o Stan Laurel (che idolatrava e con cui ebbe contatti costanti), sta survoltando, caricando quelle gag e quei meccanismi su un piano diverso, dove il riso e il dolore, la malinconia e l’allegria, l’isterismo e la crudeltà insita nel gioco comico infantile, diventano oggetti di riflessione.
Non è un caso se questo suo lato “doloroso”, serio, in-sofferente, impassibile sia proprio ciò che Martin Scorsese ha enucleato nella scelta di affidare a lui il ruolo di deuteragonista (alter ego di Lewis stesso) in The King of Comedy (1983) in cui non a caso il suo corpo è sottoposto da De Niro a un sequestro che lo cattura, imbavaglia, lega, tortura. Il corpo comico di Jerry si snerva. Ripercuote la contraddizione di una “termodinamica” di perdite e trasferimento di energie. Come scrive Christophe Kihm: “Il riso sarà dunque, fisiologicamente e psicologicamente, l’effetto di una pena portata a un tale grado che implica una perdita del controllo e dell’emozione”. Si è notato come Jerry fosse ossessionato dalla duplicazione del suo corpo, da una disseminazione di identità che, come accade nell’horror, produceva un trauma, ma un trauma comico. Ciò che rimane della sua imprescindibile lezione è una specie di anatomia, scarnificazione, autoriflessione delle potenze comiche del corpo: un regista come Blake Edwards o attori come Peter Sellers e Jim Carrey si sono posti su questa linea.
Una linea del comico in cui si distinguono tre primati: quello della deformazione (grottesca e al limite del mostruoso), della velocità, della duplicazione. Ciò sia dei corpi come vettori e come stati di deformazione e scissione, sia dello spazio del set, che si pone come allucinazione “implicata”, direbbe Deleuze, come slittamento e scivolamento, che li fa “danzare” e “rovinare”. Jerry Lewis ha costruito con i suoi film una sintomatologia del corpo comico, arrischiandosi in territori dove (come nei film diretti da Frank Tashlin e Norman Taurog e poi in quelli diretti da lui stesso) il proprio corpo è sottoposto a una continua “prova di forza” che si estende alla forma del film, che ne diviene specchio. Come in L’idolo delle donne (1961), dove l’immenso spaccato della “Dollhouse”, del pensionato femminile, (citato da Godard e spiato da un giovane Francis Ford Coppola che visitò il set) permette a Jerry un tour de force dei corpi inquadrati e sbalzati nel e dal set. Se si pensa che il fisico di Lewis, che ha resistito fino a 91 anni, ha sofferto di innumerevoli malattie e acciacchi provocati dal surmenage attorico (sul set di Cinderella salì una scalinata in 7 secondi, collassò a terra e finì per quattro giorni sotto una tenda di ossigeno) e che l’altra faccia, quella dolorosa, del suo essere un comico celebre si è esplicata nel suo mettersi a disposizione con il Telethon a favore delle distrofie, si comprende quanto tale scissione tra riso e dolore fosse per lui fondamentale.
Il corpo di Jerry si deforma, scivola velocissimamente, e si duplica in una infinità di doppi: tali operazioni mentre provocano riso generano un campo intensivo, un piano di resistenza contro gli accidenti e di sopravvivenza rispetto al suo rigenerarsi di fronte agli impedimenti. La consapevolezza e l’innocenza insieme di questo lavoro lo mantengono puer aeternus, provocano una sfida e un eroismo incosciente che è quello del bambino che si mette in pericolo per ridere e suscitare il riso, e facendo ciò prende coscienza del proprio corpo, del suo eccesso che si trasfonde in una “tempesta del sensibile” (come dice Kihm a proposito della comicità nel moderno). Il gioco delle identità e dei travestimenti deformanti è per Jerry una prova di vertigine, una febbre comica che lo sdoppia e moltiplica continuamente (del resto lo sdoppiamento “schizo” è già insito nel sodalizio con Dean Martin, una sorta di suo “ideale dell’Io” di cui Jerry sarebbe l’”Es”).
In Il cenerentolo (1960) Jerry/Freddie imbranato e bonaccione si sdoppia in uno scapolo seduttore; in Le folli notti del dottor Jerry (1963) si duplica in Julius Kelp e Buddy Love, introverso bruttone e fascinoso playboy; in I sette magnifici Jerry (1965) è un autista che si moltiplica negli zii eccentrici di una piccola ereditiera, in Il ciarlatano (1967) è il sosia di un feroce gangster e si traveste come il Nutty Professor (citando se stesso e il personaggio). Ma è nel suo primo film da regista Ragazzo tuttofare (1960) che la vertigine dell’identità viene, come un viatico e un suggello, a racchiudere l’azzardo di un film dove Jerry non parla mai (e alla fine giustifica ciò con una battuta fulminante: “Nessuno mi ha chiesto niente!”) ed è un fattorino “gagman” dal nomen omen Stanlio (Lewis chiese a Stan Laurel, già vecchio e malato, di apparire nel film come un nume che gli passa le consegne, ma poi nel film lo imitò Bill Richmond) e insieme è se stesso (già showman acclamato) che fa irruzione nell’hotel. I titoli sono scritti su un foglio bianco da Jerry, che sul suo nome pone la scritta starring e poi il “se stesso” del film nei titoli di coda appare come Joseph Lewitch (il suo vero nome). Jerry e i suoi doppi: chi fu quello vero? Forse il dolore giubilante del suo corpo indistruttibile ne racchiude la verità.
Riferimenti bibliografici
C. Baudelaire, De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques, a cura di François L’Yvonnet, L’Herne, Paris 2015.
C. Kihm, L’epreuve de l’image.Technique et compétence du corps, Bayard, Paris 2013.