Siamo a Tokyo, una macchina da presa percorre i corridoi di una grande sala concerto. Il movimento del piano sequenza segue uno spostamento in soggettiva e non intende in nessun modo nascondere la presenza di una istanza filmante. Il documentario di Charlotte Gainsbourg, qui per la prima volta nel ruolo di regista, vuole offrire un personale ritratto della celebre madre, l’attrice e cantante Jane Birkin, e suggerisce già in queste prime scene delle chiare coordinate da seguire per interpretare il rapporto tra madre e figlia: se Jane è una misteriosa immagine da decostruire, la figlia Charlotte diventa uno sguardo indagatore, che si serve dei dispositivi cinematografici e fotografici per mediare la relazione.

Sedute una davanti all’altra, Jane Birkin e Charlotte Gainsbourg sono reinquadrate da una porta in stile orientale; questa stessa ambientazione usata durante un loro viaggio in Giappone sarà poi riallestita in altri luoghi, ricreando di volta in volta una dimensione intima che sembra quasi uterina, e che mette entrambe le donne sullo stesso piano primigenio. All’inizio del film la regista spiega alla madre come si svolgerà il processo di ripresa: “La mia idea è guardarti come non l’ho fatto mai, o come non ho mai avuto il coraggio di fare. Registrarti con la macchina da presa è quasi una scusa per osservarti”. In questa dichiarazione artistica riecheggia quella fatta da Agnès Varda in Jane B. par Agnès V. (1988), un film sperimentale in cui la regista, a partire dalla figura iconica di Jane Birkin, si interroga su temi come il femminismo, la maternità, e il passaggio del tempo, con i relativi segni dell’invecchiamento. Come avviene anche in altri suoi lavori, è attraverso la forma documentario che Varda prende coscienza di sé ed elabora una più universale riflessione sulla creazione di immagini. Rivolgendo lo sguardo verso Jane, il profilo tracciato da Varda ci restituisce una donna allo specchio la cui identità si spezza in una molteplicità di frammenti, per cui non c’è e non ci sarà mai una sola Jane Birkin.

Anche il ritratto di Jane delineato da Charlotte è fatto di immagini diverse. Ancora prima che questa compaia sullo schermo, riconosciamo la donna in una fotografia degli anni ‘60 stampata sulle copertine dei suoi album in vendita all’ingresso di una sala da concerto in Giappone. Successivamente, sarà Jane stessa a darci un’altra immagine di sé, un disegno stilizzato della propria sagoma realizzato a mano da lei stessa che Jane ha donato ai cinquanta musicisti dell’orchestra.

Sul piano formale, Charlotte utilizza in modo ancora più dichiarato un approccio intermediale per registrare la fisicità attuale di Jane e produrre nuove immagini della madre, realizzando durante il film numerose fotografie e riprese con fotocamere digitali e analogiche, tra cui una 16 mm Bolex, una DSLR, e una piccola Leica. In quella che sembra un’installazione di videoarte, Charlotte proietta sul corpo di Jane dei video di famiglia, immagini dove sono presenti sia le due protagoniste, sia l’ex marito di Jane e padre di Charlotte, il musicista Serge Gainsbourg. Questa messa in scena permette a Jane di accedere a delle immagini che sarebbe troppo doloroso osservare.

Inaspettatamente nel film compare in effetti una terza figura, quella di Serge Gainsbourg, che dà avvio ad una complessa operazione di cristallizzazione temporale e di stratificazione di significati. Madre e figlia visitano l’appartamento parigino di Serge, situato nella 5 bis Rue de Verneuil, in cui l’artista aveva vissuto dagli anni ‘60 fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1991 e che resta tutt’oggi immutato; al suo interno ritrovano un’articolata collezione di oggetti che testimoniano l’esistenza di Serge, la cultura di cui è stato simbolo e, nonostante la loro separazione, l’intensa storia d’amore che c’è stata tra lui e Jane.

La “casa-museo” di Serge può essere inserita nella tradizione che va dalle Wunderkammern ai cabinets de curiosité, ma in modo ancora più evidente sembra riproporre la complessa macchina retorica realizzata dallo scrittore turco Orhan Pamuk, a partire dal romanzo Il museo dell’innocenza, che ha generato un museo a Istanbul con lo stesso nome. Come il protagonista del romanzo di Pamuk, anche Serge ha collezionato negli anni in modo ossessivo oggetti ordinari relativi alla donna amata; ad esempio, un’infinità di boccette di profumo appartenute a Jane.

Questi oggetti sono innocenti perché non hanno un valore venale e non sono stati pensati come opere d’arte, bensì si legano tra loro creando delle storie e veicolando dei significati che finiscono per trovare una valenza artistica. Dopo queste sequenze museali, in cui coesistono passato e presente, il progetto di un dialogo tra madre e figlia risulta disintegrato, ed è infine sostituito da un confronto muto tra lo sguardo di Serge e quello di Charlotte. I due Gainsbourg hanno generato nel corso della loro vita delle immagini intorno alla stessa donna, come un mezzo per rappresentare le loro visioni artistiche, e i loro vissuti, producendo accostamenti che risultano oggi intensamente evocativi.

Riferimenti bibliografici
L. Lombardi, M. Rossi, a cura di, Un sogno fatto a Milano. Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo, Johan & Levi, Monza 2018.
O. Pamuk, Il museo dell’innocenza, Einaudi, Torino 2009.
Id., L’innocenza degli oggetti, Einaudi, Torino 2012.

Jane by Charlotte. Regia: Charlotte Gainsbourg; sceneggiatura: Charlotte Gainsbourg; musiche: Charlotte Gainsbourg; produzione: Nolita Cinema, Deadly Valentine; distribuzione: Wanted Cinema; origine: Francia, Gran Bretagna, Giappone; durata: 88′; anno: 2021.

Share