Una cosa in primo luogo non potrebbe sfuggirci – che nell’analisi
c’è tutta una parte di reale dei nostri soggetti che ci sfugge.
J. Lacan

Nel primo capitolo, libro secondo, del Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, intitolato L’importanza del concetto di paternità, Émile Benveniste si sofferma ad analizzare un singolare fenomeno linguistico. Se, di tutti i termini della parentela, la forma meglio attestata nelle lingue indoeuropee è “il nome del padre”, accade che, in un certo numero di lingue, vi sia un altro nome per dire il padre, un altro nome del padre. Accanto al sanscrito pitar-, al greco patér, al latino pater troviamo in ittita, latino, greco, gotico il termine atta. Secondo Benveniste non si può liquidare la questione sostenendo che atta sarebbe una forma familiare di *p∂ter: «Si tratta di due rappresentazioni distinte, ed esse possono, a seconda delle lingue, mostrarsi irriducibili l’una all’altra» (2001, p. 162). Anche Freud aveva parlato di due figure del padre: il padre edipico e il padre dell’orda, il padre della Legge e il padre originario che gode di tutte le donne e che, per Lacan, assumerà i tratti del padre reale del godimento sregolato. Benveniste però non segue il percorso tracciato da Freud, almeno non interamente.

Cosa nominano dunque questi due nomi del padre? Da un lato, abbiamo un nome che designa il padre come vertice di un sistema mitologico-religioso, senza riferimento alla paternità fisica; dall’altro, abbiamo un nome che rinvia a un padre reale, che si rapporta al figlio. *P∂ter nomina una figura mitologica, è il Dio supremo degli Indoeuropei, è il nome del padre posto al vertice di un ordine simbolico; atta nomina invece il padre-persona, in carne ed ossa, ed è in rapporto con tata che in vedico, greco, latino è un modo infantile per chiamare affettuosamente il padre. Da qui Benveniste elabora la sua ipotesi: «Atta deve essere il “padre che nutre”, colui che alleva il bambino» (ivi, p. 163). Ora, c’è un dato interessante che Benveniste rileva nell’evoluzione dell’idea di paternità verso questo padre che nutre il figlio, che nutre la vita: «Se atta ha prevalso in una parte del territorio, è stato probabilmente in seguito a profondi cambiamenti nelle concezioni religiose e nella struttura sociale. Infatti, dove viene usato il solo atta, non c’è più traccia dell’antica mitologia in cui regnava un dio padre» (ibidem).

Il padre che nutre è ciò che resta del padre dopo il venire meno del Nome del padre come significante ultimo, garante dell’ordine simbolico, come Altro dell’Altro. Non c’è dunque solo il padre reale come padre-godimento al di là del Nome del padre. È precisamente qui che si colloca la nuova lettura che Recalcati ci offre di Lacan e che dedica, in memoriam, a suo padre, Enrico Recalcati, «floricoltore»: nel punto in cui il simbolico si rivela sistema imperfetto, «mancante nella sua stessa struttura» (Recalcati 2023, p. 86); lì dove il significante ultimo, il Nome del padre, lascia spazio a un reale che resiste alla significazione e mostra l’impossibilità della totalizzazione. Non si tratta di uno spazio qualunque; qui, fino a un certo punto del percorso intellettuale di Lacan, va in scena la condizione clinica più disperata, la psicosi, che per Lacan corrispondeva esattamente a una forclusione del Nome del padre, secondo una lettura edipica della psicosi:

La teoria della forclusione sostiene infatti che nel soggetto psicotico vi sia una carenza fondamentale non tanto nel soggetto, ma nel luogo dell’Altro come luogo del simbolico. Nel soggetto psicotico questo luogo appare minato nel suo fondamento perché privato del significante che ordina l’insieme dei significanti e che Lacan individua nel Nome del padre. La forclusione – la disattivazione simbolica – di questo significante definirebbe con precisione la causalità fondamentale delle psicosi (ivi, p. 80).

Ma lo sviluppo della riflessione di Lacan sul reale lo condurrà a problematizzare radicalmente questa concezione dei rapporti tra reale e simbolico: si passa dal significante dei significanti (Nome del padre) che manca all’Altro e che scatenerebbe la psicosi a una mancanza strutturale inscritta al cuore dell’Altro. Non c’è Altro dell’Altro, l’Altro è in se stesso inconsistente, barrato, mancante. Il simbolico, in altri termini, non può simbolizzare interamente il reale, non può addomesticare il reale: non perché è stato forcluso il significante del Nome del padre, ma perché strutturalmente mancante.

È quello che Derrida, nel 1971, obiettava a Lacan senza rendersi conto che Lacan si trovava già là dove scriveva Derrida, là dove si scrive il libro di Recalcati:

Effrazione marcante del "simbolico". Ogni possibilità di disordine e di disorganizzazione del simbolico a partire dalla forza di un certo fuori […] da un "reale" determinato come "impossibile"? Dalla schizofrenia o dalla psicosi? E in questo caso, che conseguenze trarre? Ecco la breccia che, sotto il titolo di disseminazione, mi interessa (1999, pp. 105-106).

In questo nuovo quadro, in cui una breccia è già strutturalmente aperta nel simbolico, muta progressivamente anche il rapporto tra il significante e il reale. Se nella prima versione del rapporto Lacan accentuava la funzione negativizzante del significante rispetto al reale del godimento, nella seconda versione il significante diventa causa del godimento. Restano però una discrepanza e uno iato tra significante e godimento, precisa Recalcati, prendendo così le distanze  dalla scolastica lacaniana e da Jacques-Alain Miller per cui la parola del secondo Lacan «è solo una modalità del godimento Uno» (Miller 2001, p. 39).

Come rapportarsi a questo reale che Recalcati riconosce essere la vera eredità di Lacan? La risposta di Recalcati annoda in modo inedito il pensiero di Lacan, tenendo insieme ciò che scolastica e neoscolastica lacaniana vorrebbero nettamente distinguere: il Lacan del simbolico e il Lacan del reale. Scrive Recalcati: «Al centro di questo mio lavoro c’è, dunque, un Lacan preso nella sua complessità labirintica e non spezzato in due» (2023, p. 16). Come avvenga questo annodamento possiamo vederlo se leggiamo insieme due domande: quella del sottotitolo del libro «Ereditare il reale?» e quella che appare a un certo punto del testo «esiste una dimensione reale del desiderio?» (ivi, p. 103). È Recalcati a correlare queste due domande riformulandole in modo più articolato una dopo l’altra, una come rilancio dell’altra: «Com’è possibile entrare in rapporto a questo reale senza lasciarsi travolgere ma senza nemmeno pretendere di normarlo? E, soprattutto, come articolare il reale del godimento pulsionale con l’istanza singolare del desiderio?» (ivi, p. 92).

Il nodo in gioco è quello tra reale e desiderio. Reale e desiderio, godimento e desiderio, si annodano nella forma di un desiderio non come desiderio del desiderio dell’Altro, ma come desiderio che attinge forza dalla pulsione reindirizzandola, convertendola, senza cedere alla spinta a voler godere di tutto. Naturalmente, perché avvenga questa conversione («conversione della pulsione all’ordine etico del desiderio», «la pulsione si converte al desiderio» scrive Recalcati, ivi, p. 111) serve l’intervento della Legge della castrazione non come repressione del desiderio ma come messa in forma della forza della pulsione, come sua plasmazione in una nuova forma.

Qui Recalcati cita il Lacan di Sovversione del soggetto: «La castrazione vuol dire che bisogna che il godimento sia rifiutato perché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della Legge del desiderio» (2002, p. 830). Ma a cosa allude questo rovesciamento? Che cosa è in gioco in questo passaggio dal godimento al desiderio? La vita la morte, per usare un’espressione di Derrida; un accesso a un soprappiù di vita che passa attraverso la morte, un’affermazione della vita nel rovesciamento della morte. Si tratta di fare il lutto del godimento mortale della Cosa, per accedere a un desiderio «generativo» (2023, p. 109), a un «accordo generativo con il godimento» (ibidem). L’etica è lo spazio in cui reale e desiderio si annodano. Ma quale etica? Un’etica del desiderio come etica della forza generativa. Scrive Recalcati: «Il desiderio inedito che si produce alla fine di un’analisi è una forza che ha trovato una forma nuova. Pulsione e desiderio non sono più antinomici, ma appaiono annodanti: la forza della pulsione trova la sua nuova forma nell’ordine etico del desiderio» (ivi, p. 111).

Ora questa forza generativa a cui si converte la pulsione nell’ordine etico del desiderio è una forza vitale, che nutre la vita, che ravviva la vita. Impossibile non sentire riecheggiare, sullo sfondo di queste pagine, altre pagine bellissime in cui Recalcati mette in relazione conversione e vita generativa: «In gioco è qui un passaggio attraverso una porta stretta che consente di realizzare una vita più ricca, più generativa, più viva, una vita caratterizzata da una grande “abbondanza” […] Gesù offre la possibilità di una conversione della vita in una vita più viva, più ricca, più generativa» (2019, p. 21).

Ed è qui – qui dove scrive Massimo Recalcati, qui nello spazio dell’abbandono del padre – che il padre, al di là del Nome del padre e del padre reale dell’orda, il padre nel tempo del lutto del Nome del padre, ritorna con il reale del suo desiderio generativo. È qui che le domande recalcatiane ereditare il reale?, esiste una dimensione reale del desiderio? e cosa resta del padre? si annodano. «Se il Nome del padre non può più garantire l’essere del soggetto, in primo piano viene allora il valore del desiderio del padre, della sua testimonianza singolare» (Recalcati 2023, p. 129). Il padre che nutre la vita?

Riferimenti bibliografici
É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I., a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 2001.
J. Derrida, Posizioni, a cura di G. Sertoli, ombre corte, Verona 1999.
J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, a cura di A. di Ciaccia, Astrolabio, Roma 2001.
J. Lacan, Scritti, vol. II, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 2002.
M. Recalcati, La notte del Getsemani, Einaudi, Torino 2019.

Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Ereditare il reale?, Feltrinelli, Milano 2023.

Tags     Jacques Lacan, padre
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