Uno dei concetti più interessanti, utilizzato dalla filosofia del Novecento per provare ad andare oltre se stessa, in modo da ripensare il proprio statuto, è probabilmente quello di fuga. Mutuata dall’ambito musicale, l’idea di fuga indica la possibilità per il darsi di un pensiero non identitario che, lungi dal riconoscersi nell’ambito di una spazialità e di un’identità definite, faccia da contrappunto ad ogni territorialità settoriale specifica. La lettura del volume collettaneo Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea, curato da Antonio Montefusco, rimanda, a mio avviso, proprio ad una considerazione del genere. Una serie di studiosi di fama internazionale si interrogano in maniera trasversale sulla possibilità di fornire le coordinate concettuali che inquadrino in maniera generale uno dei fenomeni filosofici più fecondi degli ultimi decenni: l’Italian Thought.

Sebbene il punto di partenza sia il medesimo, differenti sono gli approcci e gli esiti teorici forniti nei vari saggi; una serie di linee concettuali convergenti e, al contempo, divergenti che, in una rete senza centro e periferia, ci fornisce delle indicazioni possibili per un’ermeneutica del pensiero italiano e della sua unicità.

L’aver insistito fin qui sulla forma attraverso cui questo testo prende vita è semplicemente un esercizio di stile. Mi pare, invece, interessante notare che la forma del volume riproponga quelli che, per alcuni versi, sono i contenuti dell’indagine di Italia senza nazione. In altre parole, la mancanza di un centro unificatore del volume, la plurivocità dei testi che lo compongono, l’impossibilità ermeneutica della reductio ad unum, l’ampiezza temporale e argomentativa ricoperta dai vari interventi, tutti questi elementi nella loro totalità ripropongono in maniera coerente quella che è la prerogativa più propria dell’Italian thought e la sua specificità.

Siamo di fronte, dunque, ad una perenne tendenza alla deterritorializzazione che, come sottolineato magistralmente da Roberto Esposito, fa del pensiero italiano il luogo sempre spurio di un’estroflessione continua. È il rapporto tra i linguaggi della ragione e del senso, del mito e del logos che costituisce, in opposizione al cartesianesimo dominante in ambito europeo, il proprio della modernità italiana. Provare a fare una genealogia dell’Italian thought risulta essere, allora, un’operazione di secondo grado, in quanto genealogia di un pensiero che ha fatto del rapporto con l’origine, anche irrazionale, della riflessione filosofica la propria ragion d’essere. Machiavelli, Bruno e Vico rappresentano, in questo contesto, gli esempi più propri di tale tendenza.

Il collocarsi sempre “fuori luogo” e “fuori centro” del pensiero italiano rivela, a mio avviso, almeno due sue caratteristiche decisive che meritano di essere messe brevemente in evidenza. Innanzitutto il suo presentarsi come un sapere non meramente filosofico lo porta ad incrociare traiettorie teoriche disparate a livello sia cronologico sia tematico. Ecco che, allora, appare molto calzante il paragone fatto da Emanuele Coccia tra la teologia medievale del XIII secolo e l’italian theory; entrambe si danno, infatti, come un sapere che l’autore definisce, con un suggestivo neologismo, anatopico. Al di là di ogni specialismo e di ogni divisione settoriale si tratta di considerare il sapere nella sua dimensione tanto universalistica quanto policentrica. Un infinito esercizio di riscrittura e di immaginazione del reale che rende l’italian theory, pensata più come un’atmosfera che come teoria accademica, «una splendida forma di teologia» (Montefusco 2019, p. 55).

Come nel saggio di Coccia anche nel testo di Antonio Montefusco le radici dell’Italian theory sono da ricercare nel Medioevo. Proprio qui si annidano per l’autore i caratteri di eccezionalità che fanno del pensiero italiano un luogo teorico del tutto particolare in cui storia, politica e vita si intrecciano in una feconda promiscuità, che costituisce il «rimosso inquieto della scrittura letteraria» (ivi, p. 94).

Il saggio di Gentili e Stimilli esplicita, invece, la seconda caratteristica a cui accennavamo in precedenza e che, in fondo, attraversa in maniera più o meno esplicita le pagine di tutti i saggi del volume; si tratta dell’intrinseca caratura politica dell’italian theory. In altri termini l’impossibilità di definire in maniera univoca le peculiarità proprie del pensiero italiano e questo suo carattere sfuggente sono il contraltare teorico dell’irriducibilità alla concettualizzazione dell’identità italiana. La mancanza di identità filosofica è, detto esplicitamente, epifenomeno precipuo dell’impossibilità di definire politicamente l’Italia; per l’appunto, come recita il titolo del volume, un’Italia senza nazione, in cui il lemma “nazione” rimanda tanto all’idea canonica di una comunità con la stessa lingua, storia e costumi quanto alla possibilità di pensare, secondo l’etimo della nozione natio, l’origine stessa dell’Italia. E qui, in maniera circolare, ritorna a mio avviso quella tendenza alla genealogia propria del pensiero italiano; una genealogia che si costituisce sempre come un qualcosa di impossibile (per l’appunto, senza origine, senza natio) eppure, al contempo, necessario.

Come pensare, allora, un’Italia senza nazione? Come provare a declinare, altresì, la specificità aspecifica dell’Italian Thought? Analizzando l’evento storico di Caporetto a partire dai presupposti teorici di un pensiero della destituzione, Luca Salza propone di individuare nella mancanza d’identità del pensiero italiano, nel suo carattere non esclusivamente filosofico e nella sua consustanziale eccezionalità, lo spazio di effrazione dell’ordine del discorso basato sui presupposti moderni di soggettività, identità e proprietà. Caporetto, vista sotto la lente di una storia altra (sia anche la microstoria di cui parla Alessandro Casellato nel suo saggio), sarebbe, in altre parole, il nome di un’Italia minore (nel senso deleuziano del termine), la cui pre-nazionalità, tanto storica quanto più squisitamente genealogica, si rovescia in una paradossale e inaspettata idea di post-nazionalità.

Se l’Italia ha trovato la propria identità “bastarda” attraverso la lingua e la cultura ciò è avvenuto sempre in nome di una pluralità, di un anatopismo, di una deterritorializzazione che hanno, al contempo, reso inoperosa, nel senso agambeniano del termine, questa identità, trasformandola costantemente in nuovi spazi di ospitalità culturale e politica.

Riferimenti bibliografici
A. Montefusco, a cura di, Italia senza nazione. Nota sulla fotografia Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea, Quodlibet, Macerata 2019.

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