Russell T. Davies è uno dei grandi autori della televisione inglese, uno sceneggiatore estremamente prolifico che si è misurato tanto con la tv per ragazzi quanto con le miniserie di prestigio. Suoi sono, per citare due titoli recenti, Years and Years (2019) e A very English Scandal (2018). È l’uomo che nel 2005 ha orchestrato la rinascita di Doctor Who, del quale era un fan sfegatato sin dall’adolescenza, e soprattutto è l’autore di Queer as Folk (2000-2005), pietra miliare delle serie tv e una delle prime occasioni in cui l’omosessualità (maschile) è stata rappresentata sullo schermo in maniera del tutto anapologetica.
Come spesso è stato rilevato, nel corso degli anni ’80 i personaggi gay iniziavano a comparire qua e là con una certa frequenza, ma di solito non gli era concesso avere una vita sessuale, o perlomeno non se volevano essere rappresentati in una luce positiva: «I “gay cattivi” erano molto facili da identificare: erano quelli con una libido. I “gay buoni” erano invece quasi asessuali […] Di solito non uscivano con nessuno del loro stesso sesso, non avevano relazioni, addirittura non sembravano conoscere altre persone gay» (Capsuto 2000, cit. in Creeber 2004, p. 132). Queer as Folk da questo punto di vista rompeva ogni barriera: non si limitava a includere personaggi gay ma assumeva una prospettiva integralmente omosessuale e adottava uno sguardo sfacciatamente erotizzante sul corpo maschile. In quello che sullo schermo doveva sembrare un mondo parallelo, l’omosessualità diventava la norma.
Tra gli elogi, Queer as Folk ha ricevuto anche molte critiche, alcune delle quali riprendevano gli argomenti tipicamente diretti contro quel filone di serie che si concentrano sulla vita quotidiana, quel «soap drama» (Ceeber 2004) che comprende anche Thirtysomething (1987-1991), This Life (2007-2009), Sex and the City (1998-2004) o Girls (2012-2017), spesso accusato di esse superficiale, ombelicale, politicamente disimpegnato. Una delle obiezioni più ricorrenti riguardava, in particolare, il rifiuto di parlare di Aids e di preservativi: né l’uno né gli altri vengono mai menzionati, come invece è poi accaduto nel remake statunitense. Davies ha più volte dichiarato che l’omissione era voluta e programmatica: nel 1999, quando la serie andò in onda per la prima volta su Channel 4, sembrava più importante rompere l’associazione stigmatizzante tra HIV e omosessualità piuttosto che diffondere buone pratiche sul sesso sicuro; era una scelta precisa che derivava dalla volontà di celebrare l’omoerotismo, più che di rappresentarlo. A distanza di vent’anni, invece, il momento sembra essere arrivato e Davies ha deciso di affrontare la tragedia dell’epidemia di Aids con It’s a Sin, miniserie andata in onda a febbraio su Channel 4, presentata in anteprima alla Berlinale e in arrivo in Italia il primo giugno su Starzplay.
La mancata reazione all’esplosione dell’Aids è stata già raccontata altre volte, da Angels in America (spettacolo teatrale del 1991, adattato in miniserie nel 2003) a Pose (che si concluderà quest’anno con la terza stagione), ma è una ferita ancora aperta e non ancora davvero assorbita dalla coscienza collettiva, costantemente a rischio di rimozione. Alla luce dell’esperienza dell’attuale pandemia, per quanto incommensurabilmente diversa, è ancora più inconcepibile la lentezza della risposta istituzionale all’Aids: i primi casi riconosciuti apparvero intorno al 1981, ma ancora nel 1984 il press secretary di Reagan poteva permettersi di liquidare le domande di un giornalista dicendo, tra le risatine, che non ne sapeva nulla. Reagan nominò pubblicamente l’Aids per la prima volta solo ne 1985, in un discorso in cui esprimeva scetticismo verso l’idea di ammettere a scuola i bambini malati. Lo stesso anno – quattro anni dopo le prime diagnosi – ci fu la prima conferenza internazionale dell’OMS, l’anno successivo la prima – terrorizzante – campagna informativa del governo britannico. Mentre migliaia di persone morivano e molte di più si contagiavano, l’Aids fu caratterizzato come “peste dei gay” e relegato ai margini del dibattito pubblico per molti, cruciali anni. It’s a Sin è ambientata al centro del ciclone, nella Londra del 1981 dove, contemporaneamente, la cultura gay iniziava a reclamare il proprio spazio pubblico e l’Aids faceva la sua comparsa.
Coerentemente con lo stile di Davies, anche It’s a Sin è in parte una celebrazione: nel primo episodio fa convergere con grande sapienza narrativa i cinque protagonisti – quattro ragazzi e una ragazza – in coinquilinaggio in uno sgangherato appartamento che viene ribattezzato “pink house” e diventa il centro di una vita in comune fatta di ricerca del proprio posto del mondo ma anche di feste e sesso senza rimorsi. I quattro ragazzi, tutti omosessuali, vengono dalla provincia o da famiglie retrograde, e nella pink house possono essere se stessi per la prima volta, lanciarsi nel passaggio all’età adulta e inseguire le proprie ambizioni. Lo spettatore sa bene che l’ombra del virus incombe, ma la sceneggiatura la fa emergere poco alla volta, mentre la vita va avanti tumultuosa come ci si aspetta da dei ventenni che sperimentano per la prima volta l’indipendenza in una grande città.
La malattia, ignorata dalle autorità, offuscata dall’incomprensione e dalle leggende metropolitane (oggi diremmo dalle fake news), scambiata per cancro o polmonite, si diffonde nell’indifferenza generale, mentre gli stessi protagonisti si girano volentieri dall’altra parte quando tanti loro conoscenti spariscono misteriosamente. Il centro di It’s a Sin sono proprio queste vite gioiose spezzate: i veterani, rappresentati dal personaggio di Neil Patrick Harris, a cui gli ospedali negano l’affetto dei compagni di una vita ormai monogama; i tanti giovani promettenti, che a poco a poco spariscono, rinchiusi in ospedale o nascosti in famiglia. “Un sacco di ragazzi stanno tornando a casa ultimamente”, dice un personaggio, “e non penso che li vedremo più”: aggrediti dalla malattia, in molti si trovavano costretti a tornare in provincia, alle cure amorevolmente repressive di quelle stesse famiglie di origine dalle quali erano fuggiti, alcune delle quali non ammetteranno mai la vera causa di morte.
Un tassello fondamentale di questa storia è l’unica ragazza del gruppo, Jill: sarà la prima a capire che la malattia esiste davvero, è una minaccia per tutti e bisogna informarsi e parlarne il più possibile. Davies l’ha modellata su Jill Nadler, sua amica e reale attivista della prima ora, che ha anche invitato a recitare nella serie (interpreta, come sembra giusto, la madre della Jill fittizia). Eppure il personaggio di Jill è anche una delle poche note stonate di It’s a Sin: viene rappresentata in sostanza come una santa, e non è nient’altro che l’amica dei gay malati di Aids. Non le viene dato un partner, non è chiaro il suo orientamento sessuale, non sembra avere ambizioni, è confinata all’interno di un ruolo di cura sicuramente benintenzionato, ma anche molto limitato.
È proprio a Jill, però, che viene affidato uno dei due messaggi di fondo della serie: alla madre di uno dei ragazzi “tornati a casa”, che continuava a fare finta di nulla anche dopo la sua morte, dirà ciò che a quel punto tutti gli spettatori avranno pensato: “È morto per colpa tua. Stanno tutti morendo per colpa tua”. La vergogna, instillata dall’omofobia delle famiglie, è ciò che ha permesso al contagio di propagarsi in silenzio. L’altro messaggio, forse per Davies ancora più importante, è nelle parole di quello stesso ragazzo, che passa gli ultimi minuti di vita a ricordare i suoi numerosissimi amanti: “I had so much fun […]. They were all great. That’s what people will forget, that it was so much fun”.
Riferimenti bibliografici
S. Capsuto, Alternate Channels: The Uncensored Story of Gay and Lesbian Images on Radio and Television, 1930s to the Present, Ballantine Books, New York 2000.
G. Creeber, Serial Television. Big Drama on the Small Screen, Palgrave MacMillan, Londra 2004.
It’s a Sin. Ideatore: Russell T Davies; regia: Peter Hoar; interpreti: Olly Alexander, Omary Douglas, Callum Scott Howells, Lydia West; produzione: Red Production Company; distribuzione: Starz Play; origine: Regno Unito; anno: 2021.