L’uscita del nuovo film tratto dal romanzo di Stephen King del 1986 è un evento, e non soltanto per i fan del prolifico scrittore del Maine o per gli appassionati dell’horror. Una nuova versione di un testo letterario di culto e un remake sono infatti l’occasione per fare i conti con la propria memoria di spettatori o, meglio – senza concedere troppo agli autobiografismi –, con la memoria della propria generazione: letteralmente terrorizzata dalla miniserie televisiva del 1990, diretta da Tommy Lee Wallace, con Tim Curry nella parte del clown Pennywise, e trasmessa da Italia 1 in due prime serate invernali.
Il primo degli episodi dell’adattamento del regista argentino Andrés Muschietti si concentra sull’infanzia dei protagonisti del racconto di King, trasponendola dall’ambientazione anni cinquanta del libro, agli anni ottanta. La macchina da presa segue Bill, Richie, Eddie, Stanley, Ben e Beverly nella loro vita quotidiana, tra la casa e la scuola, nelle uscite in bicicletta, mostrando i problemi familiari che li sconvolgono e le prime occasioni d’incontro con quello che diventerà il loro tormento. Le scelte fotografiche isolano i ragazzi dallo spazio urbano e sociale, provocando una “messa fuori fuoco” dello sfondo e assegnando un carattere di opacità al contesto. La narrazione mostra dunque il progressivo affermarsi del terrore nella cittadina di Derry, man mano che diversi bambini scompaiono e, su tutti gli angoli delle strade, compaiono cartelli con la scritta “Disappeared”.
Nel breve spazio di questo articolo, non vorrei tuttavia riassumere la trama del libro né recensire il film per arrivare a un giudizio comparativo, quanto rilevare due o tre aspetti che non avevo potuto notare guardando la serie degli anni novanta, colpito da una brutta influenza e annichilito com’ero dalla figura di Pennywise.
Il primo spunto riguarda l’influenza del romanzo di King sulla poetica di David Lynch – lo dice anche Wikipedia e non mi pare avere torto –, e dunque il legame tra le due serie televisive più sconvolgenti degli anni novanta: l’It di Lee Wallace e Twin Peaks (1990) di Frost e Lynch. Due serie che identificano in sperdute cittadine degli Stati Uniti d’America l’inspiegabile sito di residenza del Male e che si sviluppano dando ampio spazio – se non assumendone il punto di vista – a due momenti di passaggio del percorso di formazione che porta all’età adulta: l’infanzia (It), l’adolescenza (Twin Peaks).
Due serie che – pur identificando un esplicito volto del Male: Killer BOB e Pennywise – insinuano il terrore fin dentro la casa dello spettatore ricorrendo all’immagine capillare delle reti infrastrutturali del mondo occidentale e del mondo tutto: la rete telefonica, quella elettrica e l’etere di Twin Peaks, dove la capacità dell’investigatore Cooper di farsi medium e la volontà di BOB di possedere il canale si oppongono l’una all’altra; la rete fognaria – la più grande struttura di interconnessione del mondo Occidentale, quantomeno dalla Roma antica – che si ritrova in It come negazione dell’opposizione tra il “dentro” e il “fuori”, suggerendo l’inquietante idea di una continua esposizione della civiltà al suo scarto, come un’“entità” sommersa (l’influenza di Howard Phillips Lovecraft su King) che accerchia e minaccia.
Un accostamento tra le forme della paura infrastrutturale di Lynch e quelle di King che si rende del resto manifesta – se non esplicita – nella sequenza del film di Muschietti riguardante la proiezione delle diapositive con le quali i ragazzi ricostruiscono gli eventi che hanno sconvolto la loro cittadina nel corso degli ultimi decenni. Nel passaggio da un’immagine all’altra, IT abbandona per un attimo la rete fognaria – con la quale si identifica, come un monopolio – ed entra in un rapporto di possessione con la medialità stessa della riproduzione: riorienta il fascio di proiezione dei ragazzi, svelandosi a loro proprio mentre stanno cercando di identificare i tratti comuni alle diverse percezioni che ne hanno avuto.
Il secondo aspetto, ancora più importante in rapporto alla memoria delle visioni passate, riguarda il ruolo assunto dalla mostruosità all’interno di IT. Riguarda il fatto che il clown Pennywise non è nient’altro che una figura x, espressione di una concezione pienamente impersonale del Male.
A ben vedere, il clown non assomiglia a nessuno di questo mondo ma, come i ritratti del diavolo dell’età medievale, è un essere semplicemente spaventoso, caratterizzato da elementi figurativi extra-ordinari e risultante dalla composizione di più figure in un unicum aberrante. Come ha scritto Daniel Arasse, per superare tale concezione tipologica del “ritratto del Diavolo”, occorre del resto aspettare il XV e XVI secolo, quando il diabolico si rende somigliante all’uomo, dando così luogo a una serie di effetti di criminalizzazione di gruppi etnici e sociali su base esteriore. Una tendenza, quest’ultima, che si perpetua nelle considerazioni lombrosiane sull’“uomo delinquente”, attraversa le teorie della razza novecentesche e, nonostante smentite scientifiche d’ogni tipo e decostruzioni, arriva drammaticamente fino al presente.
Riprendendo esplicitamente il breve e illuminante studio dello storico e teorico dell’arte, è altresì possibile ricordare come, all’interno della cultura visuale precedente al Rinascimento, il Demonio fosse rappresentato in modo tale da suscitare un immediato riconoscimento – in quanto alterità radicale rispetto all’umano – e dunque suscitare un sentimento di paura, un sacro terrore: “Il vandalismo di cui spesso erano oggetto le rappresentazioni del Diavolo, graffiate e cancellate dai devoti mostra come la paura venisse superata attraverso una risposta quasi magica all’immagine” (D. Arasse, Il ritratto del diavolo, p. 36).
Vandalismo e risposta magica all’efficacia dell’immagine tipologica del Male che sembra in qualche modo trovare una corrispondenza nella difficoltà, per quanti hanno visto la serie degli anni novanta, a guardare negli occhi l’immagine di Pennywise, nell’interpetazione di Curry, senza provare un brivido di terrore; senza voler girare velocemente la pagina (scroll down) ancora, dopo diversi anni, divenuti definitivamente adulti ma, ad ogni modo, nel contesto attuale, “ancora giovani”.
Senza risparmiarsi facili effetti di puro “intrattenimento horror”, l’It di Muschietti è del resto esplicito nel manifestare la gradualità delle forme di affermazione e condivisione dell’immagine di Pennywise presso il gruppo di ragazzi che compongono la banda dei “Perdenti”.
Dopo l’uccisione del piccolo George – alla quale assiste soltanto lo spettatore del film –, ognuno dei ragazzi incontra dapprima dei segni marginali e indiretti del volto del clown: una figura che si nasconde e si manifesta nella tendenza umana – indagata da Ernst Gombrich in uno dei suoi studi più celebri (A cavallo di un manico di scopa) – a ritrovare i tratti fisiognomici del volto nel caos impersonale delle forme che ci circondano. Si tratta di manifestazioni che emergono in prossimità del riaffiorare dei traumi subiti da parte dei ragazzi o di minacce concrete nei loro confronti: che si tratti dei ricordi dolorosi di Bill, il fratello di George, o delle angherie della banda di bulli locali capitanata da Henry Bowens o, ancora, delle violenze del padre di Beverly.
La narrazione del film procede dunque per accumulazione di simili esperienze e come una progressione continua delle modalità di manifestazione iconica di Pennywise presso i membri del gruppo, presi individualmente. Tutto questo fino a quando questi non possono più fare a meno di condividere l’esperienza ed elaborare tutti insieme il “ritratto di IT”, fissarlo in una tipologia.
Certo, il film di Muschietti mostra chiaramente come molti tra i gesti di violenza che sconvolgono la cittadina di Derry vengano commessi dai suoi stessi abitanti. Su tutti: Henry e il padre di Berverly. Allo stesso tempo, le sequenze in cui la figura del clown si metamorfizza con i personaggi violenti non possono non ricordare le possessioni da parte di BOB subite da alcuni personaggi di Twin Peaks. Ma proprio in virtù del carattere capillare e impersonale (fino a prova di imputazione) della violenza che sconvolge Derry, l’elaborazione di un ritratto di IT e l’identificazione di Pennywise come icona del Male rispondono alla sola esigenza del gruppo di ragazzi di socializzare e superare la condizione di paura nella quale si trovano.
È dunque a partire da tale ritratto ultra-mondano del mostro che i ragazzi attivano una serie di ritualità di gruppo, restituite in modo eufemistico, all’interno del film, attraverso discussioni e viaggi all’aria aperta che richiamano Stand by me – Ricordo di un’estate (1986), laddove nel romanzo di King irrompeva invece una sessualità trasgressiva.
Due prodotti molto diversi come Twin Peaks e It, ma entrambi legati all’immaginario della paura degli anni novanta, sono dunque ritornati sullo schermo in concomitanza, dopo un’assenza di ventisette anni. È questo il tempo di letargo del mostro ideato da Stephen King e non è difficile scorgere, quantomeno dietro il rilancio di It, un’efficace strategia di marketing. Indipendentemente da tale rilievo, varrebbe tuttavia la pena di chiedersi quale sia il rapporto tra l’affermarsi su larga, larghissima scala, del tema del terrore all’interno della società globalizzata degli anni dieci del nuovo millennio e l’idea della paura espressa all’interno di opere visionarie come quelle di King e di Lynch. Non è ovviamente possibile, nel breve spazio di questo articolo, provare ad affrontare una questione tanto complessa.
Restando al film di Muschietti, è forse sufficiente ribadire l’importanza assegnata al processo di costruzione di qualcosa come un ritratto condiviso di IT per mezzo di un processo di astrazione figurativa che impegna, come un lavoro, nel tempo libero delle vacanze estive, il gruppo di ragazzi. Bill ha perso il fratello al quale era molto legato ed è spinto dal desiderio di rincontrarlo o, quantomeno, di sapere chi è stato a ucciderlo, ma non per questo cede alla tentazione del “capro espiatorio”, identificando il colpevole in un emarginato qualsiasi della città. Ben cerca da subito di penetrare l’ottusità del contesto storico e sociale ed effettua alcune ricerche presso la biblioteca pubblica: accumula fatti disparati, mette insieme foto relative a decenni diversi, riguardanti i più efferati delitti avvenuti nel corso del tempo, fino al presente. Si domanda se non vi sia qualcosa come un filo conduttore, ma non per questo identifica in un cittadino di Derry o di una città limitrofa – in un “forestiero” – il responsabile dei mali che pure sconvolgono la sua vita.
Fare il “ritratto di IT” non significa, dunque, cadere in preda al panico – come un bambino negli anni novanta –, o rinunciare a una risposta alle affermazioni della violenza. Ma non significa neppure bramare a tutti i costi per l’identificazione di un’incarnazione mondana del Male: un mostro sociale al quale attribuire tutti gli aspetti più drammatici e controversi del presente. Fare il “ritratto di ESSO” – della cosa inanimata o dell’istanza impersonale – comporta piuttosto un continuo lavoro di astrazione ed elaborazione simbolica dell’immaginario per non cadere nel tranello della sua personificazione. Si tratta di una questione filosofica e antropologica di primo piano, riguardante le forme di elaborazione sociale del sentimento stesso della paura e delle sue ragioni.
All’interno di uno scenario mediatico e politico come quello attuale, dove si afferma un sentimento di caccia al mostro etnico e sociale, sono forse queste le “virtù” dei ritratti infantili del mostro o, se si preferisce, della tipologia del ritratto medievale del Diavolo e delle sue sopravvivenze nella cultura visuale contemporanea.
Riferimenti bibliografici
D. Arasse, Il ritratto del Diavolo, Nottetempo, Roma 2012.
M. Augé, Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006.
Ernst H. Gombrich, A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell’arte, Electa, Milano 2001.