Lo spettro della guerra si aggira in Europa, travalicandone anche i confini. Un sentire diffuso si insinua sotto la pelle, attonito di fronte alla corsa agli armamenti che accomuna molti Paesi nel mondo, sorpreso di riascoltare la parola “nucleare” associata ad armi di distruzione di massa. Non sappiamo quale sarà l’esito di questa metamorfosi tra i valori della pace che hanno caratterizzato la fondazione dell’Europa sin dal suo primo progetto, e i (dis)valori della guerra, che ora ha di nuovo abitato il linguaggio quotidiano, mediale e non.

Il nostro sguardo va allora verso quelle opere che i conflitti della contemporaneità li raccontano, li interrogano attraverso le immagini. I festival di cinema più sensibili intercettano queste immagini presentando film che in un modo o nell’altro mettono in gioco pensieri e visioni, opinioni e convinzioni, sul cinema e sul mondo. Soprattutto, presentando film che si collocano nel corto circuito perturbante tra i conflitti del passato (i loro discorsi, l’uso della propaganda, le immagini a cui hanno dato luogo) e il presente attraversato da nuove guerre, da nuove parole di guerra. Già in Festival come il Sundance e Rotterdam le tracce di una inquietudine dello sguardo sono emerse nei film che interrogano la potenza dell’immagine della guerra: nel festival olandese, in cui si è potuta vedere la forza della propaganda come linguaggio dell’educazione nell’impressionante lavoro sulle immagini d’archivio del finlandese Children of War and Peace di Ville Suhonen; o anche il racconto di una vita che si incrocia con quella di un paese immerso ed ebbro di nazionalismo come la Romania ritratta con tecniche miste (quasi un esempio di laboratorio artigianale del cinema) in Maia – Portrait With Hands di Alexandra Gulea. O nel più famoso festival indipendente statunitense, in cui sono circolate le immagini di Soundtrack to a Coup d’État di Johan Grimonprez, film dove la musica Jazz diventa il tappeto sonoro attraverso il quale si sviluppa il racconto della politica colonialista degli USA in Congo, e le strategie per portare alla destituzione e alla morte di Patrick Lumumba. Sono film in cui si agita il desiderio di trovare una forma, delle immagini che possano entrare nella complessità del reale, della guerra come catastrofe del reale. Film che, parlando di altri conflitti, di altri territori, creano comunque un corto circuito con il presente, con la guerra e il suo fantasma oggi.

Nei giorni del Festival di Berlino, questa particolare declinazione dello sguardo – in cui la guerra contemporanea viene interrogata proprio a partire dalle immagini, del presente come del passato – si fa ancora più pressante, lascia circolare dentro e fuori le immagini. Una tensione crescente, che emerge anzitutto nei gesti che ruotano intorno all’evento: alcuni registi che ritirano le loro opere per protesta contro la posizione del governo tedesco sulla situazione palestinese e l’azione israeliana a Gaza, la lettera dei registi della sezione Forum Expanded per sollecitare in questo ambito una presa di posizione della Berlinale. Gesti di protesta, dibattiti, interventi. È la parola che costruisce il dibattito pubblico, la sua dimensione politica. Il tempo di questa parola è l’adesso, è l’ora della cronaca, dell’evento nel corso del suo svolgersi.

Poi c’è il tempo del cinema, che è necessariamente diverso, non perché proiettato al passato, ma perché costitutivamente proiettato verso uno spazio in cui le temporalità convergono. L’immagine cinematografica è necessariamente inattuale (e proprio per questo contemporanea). Essa deve (o può) trovare prospettive, direzioni dello sguardo, immagini differenti, che non aderiscono ai flussi mediali, né vi appartengono (o perlomeno non dovrebbero). Proprio per questo l’immagine diventa assolutamente contemporanea, si colloca nel qui e ora della sua percezione. Ecco allora che in molti film della kermesse berlinese si ritrovano quelle pulsioni, quei desideri che permettono alle immagini di farsi potentemente politiche e poetiche, destabilizzando le retoriche della propaganda, del racconto mediale della guerra. Ma come questo può avvenire? Come scartare rispetto alle immagini, alle voci che riempiono l’orizzonte mediale della nostra esperienza?

La riattivazione della memoria attraversa molte delle immagini berlinesi. La memoria del trauma, della guerra, dell’occupazione, del razzismo in Voices of the Silenced di Park Soo-nam, Park Maeui, che rielabora la memoria di un massacro di esuli coreani in Giappone. O ancora, Afterwar di Birgitte Staermose, film composto dai racconti dei bambini, ora adulti, che hanno vissuto la guerra nei Balcani, e che ora sussurrano le loro storie mentre apparentemente la vita va avanti.

Ma la concretezza della guerra emerge con ancora più potenza in uno dei film più sorprendenti del festival, Intercepted di Oksana Karpovych, cineasta ucraina che vive da dieci anni in Canada, e che realizza un film politico e teorico al tempo stesso; un film che affronta la questione chiave di ogni forma di cinema che abbia come obiettivo l’evento infilmabile della guerra. Lo spazio visivo del film è costituito da immagini del territorio ucraino, immagini di spazi abbandonati, macerie, case distrutte, strade inaccessibili, segni di battagli e di combattimenti, o anche radure, fiumi, spazi desertici. Luoghi in cui la vita sembra altrove. Eppure qua e là compaiono esseri umani, forme di vita che abitano quel territorio, che in ogni caso replicano al suo interno un simulacro di normalità. Uno spazio attraversato da segni di un evento che come tale non può essere totalmente colto dalla macchina da presa. Ed è qui che si colloca allora lo spazio sonoro di Intercepted.

Una serie di voci costituisce la trama sonora del film; sono, come spiega il cartello iniziale, voci di telefonate di soldati russi alle loro madri, fidanzate, sorelle. Voci maschili e femminili che dialogano sulla guerra che quegli uomini stanno combattendo. Karpovych utilizza una serie di registrazioni di telefonate intercettate dai servizi ucraini; registrazioni che avevano lo scopo di costruire un discorso di propaganda, e che qui diventano anche altro. Quelle parole costruiscono infatti una serie di scontri tra visioni contrapposte, tra chi è a casa e chi è sul fronte, tra chi si trova a faccia a faccia con l’orrore della morte e della guerra e chi fa esperienza ogni giorno del racconto di quella stessa guerra fatta attraverso i media. Qualcosa accade mentre ascoltiamo quelle voci sullo sfondo di un paesaggio segnato dal conflitto. Le telefonate si susseguono, così come le diverse posizioni, le diverse consapevolezze di chi parla da un capo all’altro della connessione telefonica.

Lo stupore di chi si è trovato di fronte un Paese completamente diverso da quello che si aspettava, di chi inizia a dubitare di ciò che sta facendo, di chi è invece convinto delle proprie azioni, o, al contrario, se ne pente amaramente. Orrore, disillusione, paura. A volte le voci di chi è rimasto a casa ripetono stancamente le parole della propaganda ufficiale, a volte il tremolio lascia intendere la propria tensione, molto spesso c’è solo paura. Dall’altra parte c’è chi spera in un rapido ritorno, c’è chi dice che tornerà solo da morto. I materiali sonori di partenza sono pensati per diventare degli strumenti di propaganda, ma nel film si trasformano. Cade completamente la logica del due (amico-nemico) che sostiene ogni narrazione ufficiale: quello che rimane è uno spazio vuoto che rimbomba delle voci di chi sa che sta mettendo alla prova la propria umanità. È qui che allora il cinema ritrova la sua funzione di sguardo inattuale, non perché sia incapace di affrontare ciò che è contemporaneo ma anzi, proprio perché mutando lo sguardo, cambiando prospettiva esso può mettere in crisi, incrinare un discorso dominante, uno sguardo monodirezionale (o anche polarizzato).

In Intercepted il livello del suono e quello dell’immagine non combaciano secondo le logiche tradizionali della narrazione, chi parla non è in quei luoghi in quel momento; eppure la presenza di quei corpi, di quegli individui, che si scoprono non impersonali forze nemiche, ma esseri umani alle prese con i loro pregiudizi e con le loro crisi è lì, tangibile, accertata dal montaggio mentale dello spettatore. I tempi implodono, così come le opinioni. Il cinema non può – se non accettando la propria parzialità – trasformare la guerra in immagine: esso può però cercare altre immagini, che ci permettano di creare uno spazio di pensiero, di riconoscerci anche in quell’angoscia, degli (e)venti di guerra che ci sovrastano.

Intercepted. Regia: Oksana Karpovych; sceneggiatura: Oksana Karpovych; fotografia: Christopher Nunn; montaggio: Charlotte Tourres; musiche: NFNR; produzione: Les films Cosmos, Hutong Productions, Moon Man; origine: Canada, Francia, Ucraina; durata: 95′; anno: 2024.

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